Alessandro Manzoni, “la Provvidenza del male”

giovedì 25 maggio 2023


Ricordare Alessandro Manzoni per il centocinquantesimo della sua morte ha senso relativo. Manzoni è presente in perpetuo, dunque, non è per ricordarlo che ne scriviamo. Piuttosto è opportuno riesaminare aspetti della sua opera, la quale, come tutte le opere significative, è oggetto rifrangente, e consente intendimenti variabili, punti prospettici, scavi. Ad esempio, il Male. Il Male ha da sempre occupato la mente degli uomini in specie se credenti in un Dio unico e buono. Esistendo un Dio buono e un Dio malvagio non vi è questione, il Male è addossato al Dio malvagio in lotta con il Dio buono, e di solito vince il Dio buono. Così lo zoroastrismo, lo gnosticismo. Ma quando Dio è unico o unico in Tre Persone come nel cristianesimo, oltretutto un Dio creatore assoluto come non supporre che non sia Dio a creare il Male, il Maligno? Concepire un Angelo che da perfetto si fa ribelle è reputarlo un Angelo imperfetto, Dio dunque creerebbe l’imperfezione, in sostanza, il Male. Creare significa volere quel che viene creato, Dio pertanto vuole il Male. Ma se Dio vuole il Male non è un Dio buono. L’idea di un Dio anche malvagio, di un Dio benevolo, di un Dio totale spiegherebbe l’esistenza del male.

Ma non è questa la “soluzione” che le religioni monoteiste propongono. Segnatamente il cattolicesimo considera il Male una mancanza di Bene (Agostino), tesi incongruente, se Dio è totalità di essere (Bene) non può mancare a se stesso, o lo immette in un piano divino, la Provvidenza, nel quale il Male serve al Bene. Alessandro Manzoni ebbe presente, sentendolo dolorosamente, il Male, lo vide, lo coglie nell’uomo, nella Natura. A differenza di Giacomo Leopardi per il quale il Male era Male e la Morte chiudeva tragicamente la Vita, e chi intendeva vivere doveva avere il coraggio di cogliere questa nostra condizione, affratellandosi, Manzoni si rifugiò nel cattolicesimo, e più che fare del Male una mancanza di Bene, lo concepì immesso in un disegno divino che predilige le vittime terrene o apre gli occhi alla fede nei malvagi o li punisce. A tal fine c’è bisogno della “peste”. Con la peste l’uomo dimostra la sua impotenza, non è che un povero disgraziato. Fragile, mortale, gli occorre la mano di Dio, quanto più soffre tanto più ha bisogno di Dio, quindi perché Dio sussista gloriosamente l’uomo deve soffrire.

Ma se Dio ci fa vivere in queste atroci condizioni perché aver fede in Lui? È una domanda rara che non comprende la mente umana. Avviene il contrario, quanto più l’uomo soffre massimamente ha necessità di un Dio buono. Ed è questa fede in Dio che fa superare le traversie, per Manzoni, il quale si rende partecipe e intende rafforzare la convinzione popolare. Se Giacomo Leopardi intendeva consolare l’uomo con l’uomo e la nuda coscienza della sciagurata condizione umana, Manzoni ricorre alla fede popolare e la rafforza, dicevo: credi in Dio e procedi, Dio ti assisterà, Dio assiste gli sconfitti, gli sventurati, sta loro a fianco. Perché non impedisce la sconfitta? Incomprensibile. Ma comprensibile se ci si rende conto che dal punto di vista del dominio sociale l’uomo “deve” sentirsi colpevole, incapace, e sperare nell’aiuto dall’Alto. Ma chi ha deciso questa derelizione dell’uomo? L’uomo stesso, evidentemente, altrimenti non sarebbe colpevole e nullità. Dunque: l’uomo è colpevole, incapace di salvarsi, ma Dio lo conforta e lo salva. Ma perché aspettare di confortarlo e salvarlo dopo tante peripezie rattristanti? Perché se non soffrisse l’uomo non avrebbe bisogno di Dio! Dunque, Dio permette che l’uomo soffra per stabilirsi come consolatore? Consente la “peste” per consolare gli appestati? La maniera di proporre le concezioni da parte di Alessandro Manzoni si aggroviglia, non è ben definito il “ruolo” di un “Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola”, quasi che atterri per suscitare, affanni per consolare. Si rese conto Manzoni di tale stupefacente evenienza? O vide soltanto il Dio che suscita e consola, quasi non fosse stato Lui che atterra e affanna?

Con la Rivoluzione francese l’uomo aveva stimato di poter procedere in virtù della Ragione, della libera volontà, ispirandosi, se mai, a un Dio razionale o alla Dea Ragione. La fede spariva, spariva la Chiesa, spariva la mediazione tra Dio e l’uomo incarnata dai sacerdoti. L’uomo cercava soluzioni al dolore, al male umanamente, mondanamente, senza rifarsi a Dio. E, specialmente, non si credeva peccatore, nullità, implorante sostegno dall’Alto. Ciascun uomo con le propria capacità poteva valere quanto riusciva a volere. Questo sembrò sovversivo. In specie per chi, nel rendere l’uomo indegno e malvagio, lo sollevava esclusivamente per intervento divino, il quale intervento consolava soprattutto gli sventurati, gli sconfitti. Se l’uomo non si disprezzava, se l’uomo tentava la felicità in Terra, Dio non aveva più compiti consolatori. Oltretutto l’uomo esigeva diritti non solo obbediva a doveri, nullavalente come era. In Manzoni l’uomo veniva restituito all’obbedienza e alla sopportazione della sofferenza, della “peste”, volgendosi a Dio.

Manzoni, è palese, si era assunto compiti ardui successivi alla Rivoluzione francese: negare la violenza come leva del cammino storico, rendere il male, sopportato, mezzo al bene, concepire la Provvidenza quale leva attiva degli accadimenti, a fin di bene, sia pure in forme complicate e non facilmente comprensibili, quietare l’infelice dichiarando che Dio Cristo gli sta accanto (purché non si ribelli), insomma, lasciar fare la volontà di Dio. In tal modo la pace sociale era garantita, tutti se ne stavano calmi che Dio Cristo provvede. Ne I promessi sposi, i malvagi sono perdenti. O si ravvedono. La dominazione di un malvagio è momentanea e pagata carissima o rimediata con la conversione. L’innominato e la Monaca di Monza si pentono, Don Rodrigo è devastato, il Griso ha un attimo di buona sorte ed è annientato. Certo, muoiono anche i buoni, gli spiriti eletti, ma fondamentale è che i malvagi si redimano e vengano puniti, è così che la Provvidenza si sostituisce all’uomo per fare giustizia, come a dire: lascia fare a Dio. Manzoni tentò di sottrarre all’uomo di farsi giustizia, di insorgere, di agire da sé per sé. Rivolta e rivoluzione venivano estirpate dalla volontà umana. Dio fa tutto, perfino il male, che può sembrare male, lo permette (vuole?) a fin di bene! Se i rivoluzionari contavano sul loro compiere senza Dio, ora Dio compie sopra gli uomini, li compie, li regge, dà loro un fine che gli uomini ricevono grati a Dio, dovrebbero esserlo, giacché Dio ha per meta il bene, sicuramente. Tutti si affidano a Dio, in Manzoni, e Dio guida tutti, i credenti perché lo chiedono, i non credenti perché Dio si impone.

Dio fa trovare la via a Frate Martino: “Dio mi guidò” (Adelchi), la provvida ventura pone Ermengarda tra gli oppressi (Adelchi), anche Napoleone si inchina al “disonor del Golgota”, a Dio Cristo. Cristo Dio regna, vince, impera, governa, regola. E soprattutto consola gli sconfitti. Gli sforzi umani rivoluzionari di far da noi senza Dio sono velleitari, privi di senno, sconclusionati, fallimentari, per Manzoni. Senza Dio non vi è senso, ma una umanità disperata e a vuoto. Per Manzoni. Che la Storia e l’uomo finiscono nel Nulla lo esprimeva ad amarissima e chiara mestizia Giacomo Leopardi. Al quale non venne in mente di affidarsi a Dio né per averne senso né per averne consolazione, sembrandogli fuor di comprensione che Dio potendo consolare non eviti le sofferenze invece di consolare le sofferenze. Il che renderebbe Dio malvagio almeno quanto lo farebbe giudicare buono. All’opposto la concezione religiosa e filosofica del Manzoni possiamo definirla in questi termini: Dio è Tutto, l’uomo è niente; Dio è buono e provvidenziale, l’uomo peccatore; l’uomo non merita alcunché, se Dio lo tutela e lo salva è per generosità di Dio non per valore dell’uomo; i mali che gravano l’uomo sono dovuti alla colpa dell’uomo (il peccato originale); quel che noi consideriamo male, è, nella Provvidenza divina, a fin di bene; bisogna essere in condizione di sofferenza, vinto, oppresso per avere Dio accanto; non inorgoglirsi, non farsi merito, umiltà e fronte china al cospetto di Dio; non rivoltarsi, non lamentarsi, non pretendere, farsi grandi nel sopportare.

E l’Aldilà vale più che l’al di qua. Differenziandosi da coloro che rendono il Male non essere, privazione di bene, Manzoni ha una pressante coscienza del Male, lo espone volutamente, nell’uomo e nella Natura. Ma lo espone per dare la visione di una umanità misera, indegna, incapace, la quale, appunto, solo con Dio e in Dio ha, ripetiamo almeno quanto lo ripete, frequentemente, Manzoni, conforto e senso. E spinge la convinzione a formulazioni molto problematiche. C’è la peste, la gente muore individualmente e a grappoli, Padre Felice, che l’ha soccorsa, raduna a messa e predica. Ecco quel che dice, è il capitolo XXXVI de I promessi sposi: “Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là; e, col dito alzato sopra la spalla, accennava sopra sé la porta che mette al cimitero detto di San Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa; diamo intorno un’occhiata ai mille e mille che rimangono qui, troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un’occhiata a noi, noi pochi, che n’usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, Benedetto nella morte, benedetto nella salute, benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! Perché l’ha voluto, figlioli, se non per servarsi un piccolo popolo corretto dall’afflizione e infervorato dalla gratitudine? Se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’ opere che possiamo offrire a Lui? Se non a fine che la memoria dei nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi?”.

L’orazione continua, Padre Felice esorta a non gioire della salvezza, a pregare per i malati, aiutare i deboli, quindi si inginocchia e con una corda al collo chiede perdono di non aver compiuto maggiormente per soccorrere. La predica ha una funzione capitale nel romanzo ed esige la più accurata attenzione. Perfino la peste sarebbe, è a fin di bene, a quanto afferma padre Felice. È una concezione che suppone un uomo credente, spregiante se stesso, grato di ogni sventura, asservito alla volontà di Dio, certo che Dio reca il bene quando pure sembra recare il male, e più nell’aldilà, dicevo, il bene, che nell’al di qua, o per entrambe le finalità. Il dolore ci renderebbe più fraterni. Il disgraziato che resta disgraziato è il prediletto da Manzoni (e da Dio). Questa convinzione ispira il più organico romanzo della letteratura italiana, e uno dei più coerenti romanzi di impianto concettuale mai scritti: I promessi sposi. Dopo varie stesure, la prima dal titolo Fermo e Lucia e dopo una significativa revisione linguistica che sostituì a un italiano lombardo, edizione del 1827, un italiano toscano o perfino un toscano italiano, edizione del 1840-42, incurante, Manzoni, della stravaganza di porre linguaggio alla toscana in vicende di Lombardia, e pure certo che in tal modo avrebbe speziato la sua prosa, come è accaduto, infine esce l’ultima stesura de I promessi sposi. Narra di Renzo e Lucia, giovani, innamorati, in forme animose da Renzo, in forme appassionate ma trattenute da Lucia, i quali vorrebbero da promessi sposi diventare sposi, non fosse che un signorotto, siamo nel XVII secolo, in Lombardia, dominata dagli spagnoli, di nome Don Rodrigo, vorrebbe, per scommessa e capriccio, avere Lucia. Si che invia degli scherani, i bravi, a intimidire un timoroso parroco che dovrebbe cerimoniare. Questo parroco non coraggioso, e inimitabile, è Don Abbondio, che obbedisce ai bravi. Cercano Renzo e Lucia di farsi unire con inganno, non riuscendo, Lucia, avvertita da Padre Cristoforo del pericolo, viene recata presso Monza, un convento di monache. Governa il convento Gertrude, presa dalla realtà documentata, fu costei nella vita, Marianna de Leyva, costretta a monacarsi, come in uso allora, perché il patrimonio restasse al figlio maggiore, nelle famiglie aristocratiche.

Per timore e per condiscendenza Marianna si rende monaca, ma perviene a spezzare tale condizione al grado di avere un amante e di uccidere una monaca che poteva far conoscere la relazione di Marianna. Nel romanzo, l’amante di Marianna-Gertrude ha nome Egidio. L’incaponito Don Rodrigo si rivolge a un signore locale, l’Innominato, gli viene richiesto aiuto nel rapire Lucia. Un servo dell’Innominato, Nibbio, e l’amante di Gertrude, Egidio, con l’aiuto di Gertrude si impossessano di Lucia. Il Nibbio, sciagurato che fosse, è toccato dalla disperazione virginea di Lucia e ne dà notizia all’Innominato, il quale, pur depravatissimo, vive suoi tormenti, anche egli è preso dalla disperazione e purezza di Lucia, si che addirittura si ravvede, incontra il Cardinale Federigo Borromeo, che è in visita nella zona, si che Lucia è affidata a due coniugi. Intanto, Renzo cerca Lucia, a Milano entra nei tumulti dovuti alla carestia, vocifera, rischia di mal condursi, e di farsi imprigionare, sono tumulti per sfamarsi. Siamo nel momento della guerra per la successione a Mantova, con la discesa dei Lanzichenecchi, mercenari tedeschi, i quali oltre il resto dei danni, recano la peste.

La gente muore a migliaia, si sospettano untori che la propagano, da tale peste sono colpiti, buoni, come il padre Cristoforo, coraggioso protettore di Renzo e Lucia, malvagi come Don Rodrigo, il suo accolito Griso, che lo consegna ai monatti, raccoglitori dei morti, e tanti, tanti, con episodi memorabili (la morte della piccola Cecilia). La peste finisce. Renzo e Lucia si ritrovano. Si uniscono in matrimonio. Come abbiamo insistentemente detto, Manzoni ritiene che tutto ciò che avviene è per disegno divino che punisce il malvagio e se pare colpisce il buono è per il bene. Un malvagio che trionfa e si gode la vita è, per Manzoni, inconcepibile, o punito o convertito. Come creatore di personaggi Manzoni non ha avuto pari nella nostra narrativa, e il suo linguaggio li ravviva di formulazioni inconsuete, fini, proprie. Ricostruisce dettagliatamente l’epoca (finge di aver trovato un manoscritto), ed è entrato nella cultura nazionale e popolare. Il tremolante Don Abbondio, la casta e amorosa Lucia, l’animoso Renzo, il concupiscente e vile Don Rodrigo, il segreto e tenebroso e rigenerato Innominato, il maestoso e umile Cardinal Federigo, la tortuosa e redenta Monaca di Monza, la buona e materna Agnese, l’impavido Frate Cristoforo, il viscido Griso, il filosofo Don Ferrante, l’invadente Donna Prassede, e tutto quanto il resto, è definito, in bassorilievo, se non statuario.

È privo Manzoni del personaggio grandioso del tipo Amleto, Faust, Don Giovanni, Don Chisciotte, ha creato molti personaggi non il personaggio. Tuttavia sono personaggi definiti, che emergono dalle parole come viventi, in aspetti che li caratterizzano. Quel che sta in vetta al pensiero del Manzoni, è manifestare una sua urgenza, un’ossessione: che questa Terra è luogo di scorpioni, iene, tigri e talvolta di un sant’uomo, ma santi e uomini bestia sono destinati alla morte e all’insignificanza, a meno che non ricorrano a Dio, il quale conforta e condanna e rende mediante la Provvidenza a buon fine i casi della vita, prediligendo gli sconfitti e irridendo ai conati di volontà e indipendenza degli uomini da Dio. Manzoni ha parole spregiative nei confronti di un uomo che ritenga di potersi difendere e tener vigore, considera “ilari”, da ridere, tali atteggiamenti. Questo sentire niente gli uomini e questo ricorrere a Dio e cogliere o sperare nell’intervento di Dio per sanarsi dal nulla e dalla disperazione sono continui, persistenti, insistenti in tutta l’opera di Manzoni. Ma appare non facilmente spiegabile come un Dio così presente e confortevole e benevole non tronchi di netto il Male che domina la Terra, giacché, se interviene, potrebbe farlo.

Perché: o Dio interviene, e allora non comprendiamo come mai non ci scampi dal Male; o Dio non interviene, allora è come non esistesse, o è crudele. O il Male è un’illusione? Lo fosse sarebbe inutile l’intervento divino. È il problema, con riguardo al Manzoni: tanto Male sulla Terra e Dio così partecipe ai nostri eventi non elimina il Male invece di consolarci del Male accaduto! O siamo noi che ci consideriamo consolati, consolandoci...da noi? La via di uscita di Manzoni, è, l’abbiamo accennato, che i mali fanno sorgere il Bene,” la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore” (I promessi sposi), e, al solito, che l’uomo deve ringraziare Dio sempre, infimo essendo l’uomo, Sommo essendo Dio. Sono concezioni problematiche e possono non venir condivise. Oltretutto esigono la Fede. E ciò limita la loro significazione.

Che l’uomo sia in sottomissione, fragile, destinato alla morte, è vero, constatabile. Che questa condizione venga dalla colpa umana (il peccato originale, il voler farsi Dio da parte dell’uomo) è credibile solo per chi crede; che l’uomo debba accettare ogni vicenda come addossatagli da Dio per finalità divine da non mettere in discussione, non è faccenda da consentirvi immediatamente; che Dio soccorre gli sconfitti, abbatte i malvagi o li converte non è a prova sicura; che essendo Egli buono e però non ci evita sciagure, rende perplessi; che al dunque essendo l’uomo una disgraziata nullità può esclusivamente sperare e confortarsi per la benevolenza divina quand’anche l’uomo patisse tutti i mali, niente meritando, ecco una concezione che lungi dal quietare l’uomo gli cagiona insorgenza rabbiosa da renderlo accusatore di Dio non di sé, un Dio che onnipotente lo lascia soffrire e lo consola nel dolore ma non lo sottrae al dolore... un Dio buono e un uomo o malvagio o sconfitto o nullità non si armonizzano palesemente. Diversa e meglio comprensibile la visione di Leopardi. Non c’è un Dio consapevole ma una Natura inconsapevole, brutale, devastatrice, pertanto gli uomini si aiutino a riparo dalla Natura. Leopardi evita la incongruenza di un Dio cosciente e buono che lascia soffrire l’uomo o lo considera peccatore. Il che è un giudizio di fede senza altra verificazione. Assolutamente difficile da comprendere, un Dio buono che lascia l’uomo nella sofferenza confortandolo nella sofferenza non dalla sofferenza. E poi, questo bene che viene dal male! Troppo male per un qualche bene. Come mai? Colpa dell’uomo? E che bontà è mai quella che conforta il dolore ma non dal dolore? No, non siamo sicuri che il male serva il bene. Mi limito alla analisi sociologica e filosofica del Manzoni, l’analisi precisamente estetica della Sua opera esige considerazioni dirette, il modo dei dialoghi, il linguaggio, l’ambientazione, un qualche eccesso moraleggiante, pedagogico. Sul modo dei dialoghi molto da considerare, in altra sede.

Alessandro Manzoni nacque a Milano, nel 1785. La madre, Giulia Beccaria, fu donna spregiudicata, giovane rispetto al coniuge, Conte Pietro Manzoni si separò da costui. Sembra che Alessandro, già nato, non fosse di Pietro Manzoni ma di Alessandro Verri, uno dei fratelli Verri, intellettuali di rilievo e fautori della modernità. Del resto Giulia era figlia del famoso Cesare Beccaria, autore di un’opera contro la pena di morte e la tortura inneggiata dall’Europa illuminista. Alessandro sta nella casa paterna, e va in collegio dai padri somaschi e barnabiti. Alla morte del padre formale, si ricongiunge alla madre che si era da tempo unita a Carlo Imbonati, personalità di un certo valore sociale e culturale.

Il rapporto di Alessandro con la madre diverrà intenso e resterà perenne. Sono a Parigi, Imbonati muore, Alessandro frequenta i salotti della Città. È un momento straordinario, nel pieno dell’epoca napoleonica, e nel passaggio tra il classicismo, composto, misurato, e il romanticismo, estremo, appassionato, spesso ribelle. Manzoni conosce e stringe ferma amicizia con Claude Fauriel, storico, cultore dello stoicismo. Non ha, Manzoni, ancora, un orientamento deciso, anche se pare volgersi al progressismo, così il poema giovanile Urania. Sposa Enrichetta Blondel, calvinista, svizzera. Sarà stata la vicinanza della consorte, la convinzione che la vicenda umana sia un errare a fondo perduto, sarà stata la considerazione del male che sovrasta gli uomini, degli sconfitti ai vincitori vinti a loro volta dalla morte, e tutto ciò in una parapiglia insensato, in ogni caso Manzoni cerca un’uscita e la trova nella religione, cattolica con impronta giansenista (ebbe per consiglieri spirituali due sacerdoti giansenisti, Degola e Tosi), vale a dire: esiste un disegno divino, che salva e danna, la storia non è vicenda a caso, piuttosto, la peripezia del male; dell’ uomo peccatore e infimo che niente vale e può sperare da Dio la grazia; l’elemosina della salvezza e del conforto. Si tratti di individui o di popoli, Manzoni affermerà questa convinzione; dagli Inni sacri alle tragedie, Il Conte di Carmagnola, Adelchi, e infine nella sua opera fondamentale, I promessi sposi.

Scrisse anche testi saggistici, sulla lingua italiana, preferendo il toscano, sulla impossibilità di compiere il romanzo storico; e quindi la necessaria separazione di storia e invenzione, ma ciò dopo aver scritto un romanzo storico; sulla morale cattolica: Dopo la morte di Enrichetta sposò Teresa Borri. Accolse con favore l’Unità d’Italia. Venne nominato senatore. Alla sua morte Giuseppe Verdi gli dedicò una tragica Messa da Requiem, più disperata che consolatrice. Alessandro Manzoni e i suoi “personaggi” sono tra le glorie più rivissute dalla nostra nazione.


di Antonio Saccà