L’anglofilia di Luigi Einaudi

martedì 23 maggio 2023


La letteratura scientifica ha dato conto di come il dibattito in seno alla Commissione per la Costituzione (detta anche dei Settantacinque), segnatamente quello sviluppatosi all’interno della Seconda Sottocommissione, dedicata all’organizzazione costituzionale dello Stato, abbia presentato quello britannico come un modello istituzionale per diversi aspetti tanto ineguagliato in termini di efficienza quanto difficilmente importabile in Italia, causa l’assenza nel nostro Paese di quelle condizioni storico-politiche che costituivano caratteristiche qualificanti di quel modello. Parte non irrilevante, d’altronde, dei giuristi poi divenuti costituenti si era andata formando negli ultimi anni dell’Ottocento allorquando la cultura giuridica italiana aveva spesso riservato un atteggiamento di sufficienza nei confronti di quella anglosassone, preferendole la cultura giuridica tedesca.

A conclusioni così nette sfugge Luigi Einaudi che, se non sempre esplicitamente, sembra suggerire nel confronto nella Seconda Sottocommissione, pur con opportuni distinguo e cautele, la possibilità di ispirarsi con profitto all’esperienza britannica soprattutto in tema di rappresentanza dei corpi intermedi nella seconda Camera, legislazione in materia sindacale, forma di governo, rapporti tra i poteri dello Stato, autonomie e regime elettorale. Questa maggiore apertura al modello politico-istituzionale britannico nella redazione della nostra carta costituzionale deve essere decifrata prima di tutto all’interno di un’anglofilia che in Einaudi rimontava all’ultimo decennio dell’Ottocento e che avrebbe quindi permeato fin dagli inizi il suo pensiero. Diverse sono allora le riflessioni e le argomentazioni formulate da Einaudi nel dibattito alla Costituente, scandagliate nel volume, che, muovendosi all’interno di leitmotiv e fili rossi che percorrono l’intera sua produzione scientifica e giornalistica, sono ascrivibili alla sensibilità e all’orientamento filo-britannici dell’economista piemontese e più in generale ai principi del costituzionalismo liberale.

Gran parte di esse sono riassumibili in una concezione anticorporativa della vita associata, in quanto la formazione di attori socioeconomici in virtù di normative di favore avrebbe condotto “il mondo moderno alla ossificazione e alla decadenza economica e sociale”. Tale impostazione avrebbe forse raggiunto gli accenti più marcatamente antimonopolistici in materia di politica scolastica. Contro difatti l’accoglimento nella carta costituzionale del valore legale dei titoli di studio tramite la previsione di esami di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi si sarebbe mossa la battaglia einaudiana in seno alla Costituente e negli anni successivi.

Ancora alla metà anni degli anni Cinquanta nel suo Scuola e libertà, Einaudi avrebbe ribadito tutta la sua preoccupazione per i rischi liberticidi insiti nel sistema d’istruzione tipico dell’ordinamento “franco-italiano”, di derivazione napoleonica, rischi assenti in quelli vigenti nei Paesi anglosassoni (e caratterizzati da “non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia”). Se difatti, osservava Einaudi, “per la produzione di beni materiali, come il carbone, il gas, l’elettricità, possono essere studiati avvedimenti di prudenza per far sì che il pericolo sia meno grave per i monopoli pubblici che per i privati, non così per la produzione dei beni spirituali. Lo Stato tirannico o totalitario può anche rassegnarsi a limitare le usurpazioni a danno della libertà degli adulti pur di garantirsi il monopolio della educazione e quindi il dominio spirituale delle nuove generazioni”.

Luigi Einaudi anglofilo e la Carta. Dalla Consulta nazionale all’Assemblea costituente di Luca Tedesco, Roma, Roma TrE-Press 2023, 84 pagine


di Redazione