“Il tango delle capinere”: amato mio

giovedì 4 maggio 2023


Coppia “aperta”? Anche no, grazie! Ma, allora, perché sarebbe meglio “chiusa”? Forse, perché i figli si fanno grandi e se ne vanno, mentre i loro genitori rimangono soli, ma non troppo, nella lunga coda del vero amore, fulmineo, dichiarato dal primo istante, che si consuma assieme, unendo costantemente il poco futuro che rimane con il moltissimo passato che è alle loro spalle? Se la memoria è un grande “baule”, allora in questo caso se ne contano due, ricchissimi di oggetti, in cui ciascuno di questi ha concatenata la propria storia, che solo lui e lei sanno ancora declinare assieme. Di questo, in fondo, ci parla il bellissimo (e geniale) spettacolo per la regia di Emma Dante, che va in scena al Teatro Argentina fino al 14 di maggio, dal titolo: Il tango delle capinere. Si vola letteralmente sui tacchi di lei e sulle scarpe di lui, più spesso entrambi a piedi nudi, in danze dense di emozioni, sguardi gesti, travestimenti, che accompagnano gli oggetti fantasmagorici, estratti senza sosta dai recessi dei due grandi contenitori. L’uno collocato sul lato destro anteriore, il più visibile, quello del prologo riservato giustamente a lei, anziana e piegata in due dalla scoliosi, perché la donna sempre si colloca alla destra della coppia. L’altro, sulla sinistra, a riempire il fondo della scena, perché il maschio appare come una rievocazione della femmina, inversione storica della “costola di Adamo”.

Ai bravissimi e super applauditi Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri fa da corona la musica leggera d’antan, compresa quella del titolo, Tango delle capinere nell’indimenticabile interpretazione di Nilla Pizzi, una vera star della canzone melodica anni Cinquanta-Sessanta. Perché poi la vita è un continuo rimescolamento di carte dei tarocchi, tutte coperte e a sorpresa, dato che le si conosce solo quando il Destino, per chi ci crede, le gira una alla volta mostrando i simboli del futuro che ci aspetta. E in quelle sequenze si succedono e si intercalano l’uno all’altro Male e Bene; Gioia e Dolore: mani di carte purtroppo sempre e comunque finite! Ma che noia, in fondo, sarebbe una vita immortale in cui l’invecchiare o, peggio, il ringiovanire incessante, non finiscono mai! La domanda è: ma chi mischia quelle carte e poi le distribuisce a ciascuno di noi, girandole in tempi a sorpresa? Se è vero il libero arbitrio, allora un po’, oltre alla mano di Dio, un aiutino la dà anche la nostra. Volere assieme un figlio e gestirne la gestazione è un problema anche di scelta condivisa in due, con la pancia (posticcia) di lei messa sotto il naso di lui perché si coinvolga nelle difficoltà della gestante. Un ennesimo retour en arrière nei ricordi di lei, come lo è quel giorno del primo fatale incontro sulla spiaggia (sfuggito all’assidua sorveglianza dei genitori di lei!), in cui i due ragazzi si promettono la Luna e l’eterno amore (promessa quest’ultima mantenuta!), perché lei sogna di fare l’astronauta e lui, semplice falegname, sogna di regalare un castello intero alla sua amata.

Ma Emma Dante ha il suo tocco magico per sdrammatizzare gli arcani imperii della vita, come nelle scene dell’inizio del racconto, che parte dalla grande vecchiaia per andare a ritroso nel tempo, con lei curva come un ramo storto di fiume che inizia a ballare con il suo compagno fantasma. E data l’età avanzata e il fiato che manca per l’ennesimo attacco d’asma, lei si soffia di continuo il naso, accompagnando il gesto con il riflesso condizionato del pestone sulla caviglia dell’amato, cui viene mostrato il contenuto del fazzoletto, come a dire “lo vedi quanto soffro”? Fiato corto e strozzato di lei (e sono gli eccessi e le amplificazioni esagerate a costruire la vis comica), curato con pasticche che tintinnano come i campanelli e i carillon sempre a portata di mano, sempre sullo sfondo, eterni annunciatori del mistero (divino?) della vita. Come quelli delle renne di Santa Claus, o delle damine di ceramica che danzano eterne e immutabili sulla piccola piattaforma rotante azionata dal meccanismo musicale. Perché, poi, in fondo, questo siamo noi: piccini-piccini, marionette nella mano del Destino, che svolge il nostro tempo come l’arcolaio della Strega, in attesa della puntura fatale. E, a quel punto, sarà chi rimane e ci ha sempre amato ad accompagnarci tra le sue braccia stanche all’ultima dimora, dentro quel Baule che non avrà più oggetti-ricordo da metter via il giorno dopo aver vissuto quello precedente. Perché, detto tra di noi, la vita “non” è un insieme di oggetti, che non valgono nulla senza che a essi sia associata la nostra memoria di ciò che fu e mai più sarà.


di Maurizio Bonanni