Visioni. “Christian”, la deludente seconda stagione della serie tivù Sky

venerdì 14 aprile 2023


La seconda stagione di Christian accentua i difetti della prima. La serie tivù amplifica le note dolenti legate a una scrittura nebulosa, a tratti irritante. Invece di approfondire i personaggi esistenti, ne aggiunge di nuovi, alimentando dubbi, perplessità e sfidando a più riprese la pazienza dello spettatore. Il progetto televisivo creato da Valerio Cilio, Roberto “Saku” Cinardi ed Enrico Audenino è tratto dalla graphic novel Stigmate di Claudio Piersanti e Lorenzo Mattotti. La regia è firmata di Stefano Lodovichi e dallo stesso “Saku”. La sceneggiatura è opera di Cilio, insieme a Patrizia Dellea, Valentina Piersanti, Francesco Agostini e Giulio Calvani. La serie targata Sky, prodotta da Lucky Red, con la partecipazione di Newen Connect, si compone, anche stavolta, di 6 episodi della durata media di un’ora.

La storia si concentra sulle vicende di Christian (Edoardo Pesce), lo scagnozzo di Lino (Giordano De Plano), un boss di Città Palazzo (Corviale), alveare di cemento della periferia romana. Il giovane chiamato a picchiare l’ennesima vittima avverte un forte dolore alle mani, che presto iniziano a sanguinare. Christian scopre di avere dei poteri taumaturgici e inizia a compiere miracoli. Salva da morte certa l’eroinomane Rachele (Silvia D’Amico). La ragazza lo invita a cambiare vita e a curare la gente. I prodigi attirano l’attenzione di Matteo (Claudio Santamaria), un postulatole del Vaticano che, dopo la guarigione del figlio operata da Christian, si trasferisce nel quartiere per indagare sul falso profeta. Anche l’esorcista Padre Klaus (Ivan Franek) si mette sulle tracce del giovane guaritore. Intanto, si consumano le vendette: di Michela (Romana Maggiora Vergano) nei confronti del compagno, Davide (Antonio Bannò) e di Christian, che si trova coinvolto nella morte di Lino.

La seconda stagione di Christian sottolinea il tono grottesco della prima, ma rende paradossale il confronto dicotomico fra il Bene e il Male rappresentati dagli indisponenti La Nera (Laura Morante) e il Biondo (Giulio Beranek). I due attori sono costretti a recitare battute che suonano ridondanti, se non addirittura kitsch, che richiamano continuamente al libero arbitrio. Capita, infatti, di sentire accostate nella stessa frase, citazioni elementari da Kant a Giorgio Gaber, da Orwell a Mozart, fino a Maradona e Hitler. Anche gli accostamenti e le sottolineature musicali appaiono discutibili: si sovrappongono Renato Zero e Mango, Edoardo Bennato e Domenico Modugno, i Verdena, Gaetano Donizetti e il Trio Lescano. Con tutta evidenza, manca la volontà di approfondire, di scandagliare tra le pieghe emotive dei personaggi. Viene messo in scena un racconto pretenzioso dove regna letteralmente il caos e i piani narrativi confondono e si confondono. L’unica notizia confortante della serie tivù attiene alla direzione degli attori, che si conferma di assoluto livello: con le vette rappresentate dal protagonista, un sincero Edoardo Pesce, dalla dolente Silvia D’amico, dall’intenso Antonio Bannò e dal magnetico Claudio Santamaria.


di Andrea Di Falco