venerdì 24 marzo 2023
I ciliegi fioriscono d’autunno? Dipende dalle latitudini. Nella Russia zarista di Anton Pavlovič Čechov accadevano evidentemente delle cose strane. Allora che male c’è a mettere tutto in parodia? Certo la purezza stanislavskiana dell’essere e del vivere il teatro ne risente gravemente: ma, forse, oggi è l’unico modo per passare al grande pubblico fin troppo lontano dai testi classici il seguente, drammatico messaggio čecoviano: il denaro, farina del demonio, è al centro di ogni cosa, sia nel Bene e sia, soprattutto, nel Male che nei secoli sembra sempre prevalere su tutto il resto! Per cui, ad esempio, in questa (dis)umana, permanente follia “compradora”, è preferibile sostituire consunte ma buone banconote di medio-grande taglio ai delicatissimi, romanticissimi petali dei fiori di ciliegio. Allora, come avviene nello spettacolo Il giardino dei ciliegi, attualmente in scena alla Sala Umberto fino al 2 aprile per la regia di Rosario Lisma, tanto vale la pena di giocare ai guitti, magari lasciando la parte seria all’attrice che interpreta Varja, la figlia adottiva della proprietaria del Giardino dei ciliegi, Ljubov’ Andreevna. Così, nella scenografia ipersemplificata relativa, l’idea del giardino e dell’albero è affidata all’ombra cinese di un contorno di rami spogli e scorticati, sul tipo dei quadri del primo periodo di un genio moderno della pittura, come Piet Mondrian.
Risaltano, in particolare, giochi per bimbi con ritardo d’apprendimento, costituiti da grandi cubi con impresse nelle sei facce singole lettere maiuscole dell’alfabeto che non si fanno mai comporre, nemmeno per caso, in nessuna parola dotata di senso. La prima scena invece è impegnata dal corpaccione del ricco mercante Lopachin, sdraiato su di un lato con una lanterna sulla fronte il quale, nel prosieguo, come contrappasso alla sua avidità, si prende per sbaglio una sonora bastonata sulla testa (come accadrebbe in un teatro dei Pupi siciliani) dalla governante Varja. Donna di cui il mercante è segretamente innamorato (e ricambiato da lei in muto silenzio!), però mai dichiarandosi come tale all’amata, con grande cruccio della madre adottiva di quest’ultima, la padrona di casa Ljubov’ Andreevna, che l’avrebbe voluta vedere sistemata con un uomo ricco. E se rozzo, pazienza: pecunia non olet! E, tanto, di colta, avida lettrice di libri, basta e avanza Varja! Ed è così che la barcaccia va, adeguandosi alla sua rappresentazione paradossale, tra canzonette d’epoca suonate in improbabili mangiadischi anni Settanta; cellulari moderni ancora più paradossali, che ricevono sms da amanti disastrati residenti a Parigi; sdraio stese al sole che non c’è, per prendersi un’immaginaria abbronzatura in pieno autunno che solo gli sbronzi sognano, magari vestiti con improbabili completi sudtirolesi.
Però la morale cechoviana è lo stesso ben evidenziata, soprattutto nella parte dell’eterno, fastidiosissimo studente saccente, Petr Sergeevič Trofimov, mezzo bakuniano e così tanto opportunista da mettersi assieme e far innamorare di sé Anja, la superficialissima figlia naturale diciassettenne della castellana in rovina. Tant’è che nel finale drammatico persino l’evanescente, ridicolo e superficiale fratello di lei, Leonid Andreevič Gaiev, diviene il personaggio drammatico che si porta dietro la gigantesca chiocciolina di un sentimento pesante di frustrazione e fallimento esistenziale. Mentre la sorella regala monete d’oro ai barboni, quando nella sua villa non c’è da mangiare e i servitori non ricevono da mesi lo stipendio! E tutti lì, ad aspettare l’elemosina o la manna che scende dal cielo di una ricca parente, per potersi ricomprare all’asta le proprietà confiscate per mancato pagamento degli interessi sui prestiti, tra cui l’amatissimo Giardino dei ciliegi. Senza però mai muovere un dito per lavorare, cosa quest’ultima improvvida che si addice solo ai contadini e proletari, ma non al ceto nobiliare, russo come europeo. Tanto meno, si addice a quella austera e dissipatrice nobiltà il gusto macabro della speculazione immobiliare, come più volte implorato da Lopachin, per salvare la proprietà lottizzando i terreni adiacenti alla linea ferroviaria, in modo da farne altrettante residenze temporanee (le famose “villette”) per ricchi vacanzieri. Roba buona per la borghesia arraffona e affaristica, ma non per gli alti, nobili e vuoti ideali della ricca nobiltà terriera.
Così, la sagra familiare del Giardino dei ciliegi finisce nel più completo fallimento economico ed esistenziale, tra improbabili giri di social dance, brindisi, feste e cotillon di gente che non ha un soldo nemmeno per acquistare una bottiglia di vino a buon mercato. Il tutto celebrato ricorrendo ai munifici prestiti fatti a Ljubov’ Andreevna da parte di Lopachin, che vuole sgravarsi la coscienza, ben sapendo (ed essendo in questo determinato fino alla sua rovina) di vincere l’asta fallimentare per l’acquisto dell’immensa proprietà terriera del Giardino dei ciliegi. Sì, lui, Lopachin, l’ex pezzente, figlio e nipote di schiavi contadini, padre e nonno, che hanno lavorato le terre di casa Ljubov. Lui, che, come il Mercante di Venezia, ha risparmiato briciola su briciola per accumulare una vera fortuna nei commerci, volendo in cuor suo vendicarsi di quei padroni dispotici e arroganti. La fine della storia è ovvia: la vittoria di Lopachin (al caro prezzo della sua anima!) sarà scandita da uno stridore finale e insopportabile di seghe elettriche che segnerà la morte degli alberi di ciliegio. Morale: non fare (tu ricco) agli altri (poveri) quello che non vorresti fosse fatto a te. E viceversa!
Una menzione particolare va alla voce narrante, profonda e cavernosa, di Roberto Herlitzka, che interpreta la parte del fantasma del vecchio servo scomparso e amatissimo di Ljubov’ Andreevna: l’unica presenza fantasmatica che dia il senso immortale della Storia, e destinata perciò a sopravvivere per l’eternità a quella casa nobiliare in completa rovina morale e materiale. Come l’anima del proletariato, in fondo, caro Čechov, ridiventato tale nell’attuale globalizzazione senza regole, anch’essa in fase terminale, perché mortale, come tutte le cose umane.
di Maurizio Bonanni