Alberto Moravia tra l’indifferenza e l’arte

venerdì 17 marzo 2023


Ho detto che Alberto Moravia ebbe un ruolo sostanziale nella cultura e nei “costumi” dell’epoca che vissi. Oggi si parla molto del Sessantotto e giustamente perché fu l’unica rivoluzione, in certo senso, del nostro tempo, apprezzabile, in quanto si trattava di rifondare la gioia di vivere. Uno dei padri fu certamente Alberto Moravia. Moravia aveva compreso nettamente e precocemente che le ideologie sarebbero finite nel nulla, non era comunista, non era cattolico, aveva un rapporto problematico con il cristianesimo. In un testo, L’uomo come fine, accetta l’idea che l’uomo non sia strumentalizzabile, tesi cristiana. Ma non era cristiano nella morale sessuale, campo in cui Egli furoreggiava e scandalizzava. Oggi sorridiamo degli scandali di allora, ci si scandalizzava perché Moravia faceva della sessualità l’iniziazione alla vita, dal piacere di vivere al rapporto tra uomo e realtà.

In Moravia vi era una difficile, complessa problematica sul rapporto fra uomo e realtà. La perdita delle grandi concezioni che spiegavano il senso della vita accomunavano l’uomo e la natura. Moravia comprendeva che i valori tradizionali erano ormai desueti. Il suo testo Gli indifferenti (1929) narrava di questa perdita di valori che danno senso alla vita. Il protagonista, Michele, vede la rovina della sua famiglia: la madre con l’amante, la sorella con l’amante della madre, ma non ha capacità di reazione, appunto: è indifferente. Questa difficoltà di giudizio morale Moravia la sentì e la patì, ma nello stesso tempo non voleva consegnare l’uomo all’indifferenza e intuì nel sesso la possibilità di un rapporto tra uomo e realtà, e tra gli esseri umani, per ridare sapore e valore alla vita. Inoltre, ritenne l’arte il godimento estetico del reale, ad esempio nel romanzo L’attenzione. Al dunque, Moravia pone con chiarezza l’idea che l’uomo debba essere un fine per l’altro. Ma dal punto vista della vita, del trovare senso alla vita nella vita, fu il sesso che egli ritenne essenziale, insieme all’arte. In questo ispirò il Sessantotto e quel Sessantotto che ereditiamo anche noi. Chi ha vissuto quegli anni conosce benissimo il moralismo noioso, ipocrita che vigeva.

Dal punto di vista della liberalizzazione del piacere di vivere e dell’ampiezza del vivere il Sessantotto fu salutare, indispensabile e Moravia vi contribuì. Andavo a trovare Moravia soprattutto a casa o al Bar Rosati, a Piazza del Popolo, ci vedevamo con Enzo Siciliano, Bernardo Bertolucci, Adriana Asti, Laura Betti, Nico Naldini, talvolta Pier Paolo Pasolini e Ninetto Davoli. Di solito o vedevo Moravia o vedevo Pasolini. Moravia frequentava pressoché giornalmente il Bar Rosati. Siciliano scriveva i primi testi narrativi, presentati da Moravia; Bertolucci talvolta assestava qualche puntura nei riguardi di Siciliano, imbarazzandolo di fronte a Moravia. Vi era amicizia e rivalità, com’è normale. Bernardo aveva vinto, mi pare, il Premio Viareggio nella poesia e tentava, in amicizia con Pasolini, la via del cinema, dove si affermerà e si fermerà. Enzo, invece, tentava le vie della letteratura, con una sua relativa affermazione e morirà precocemente. Talvolta compariva Cesare Garboli, un distinto giovane, magro, raffinato, parsimonioso nelle sue esternazioni critiche.

Noto solo qualche nome. Anche se circondato da giovani, Moravia non si faceva maestro, non ne aveva la minima disposizione, si tuffava da pari a pari nella discussione, si impastava di umanità. Moravia fu la personalità più disponibile al dialogo che io abbia mai incontrato, sapeva discutere e amava discutere. Culturalmente, ideologicamente fu il più consapevole narratore della media borghesia romana e non soltanto romana, della media borghesia incarnava l’aspetto intellettualistico e la indecisione morale. Moravia, non credente, fondamentalmente liberale si trovò in epoche, quella fascista prima e quella cattolica o comunista dopo, in cui era indispensabile schierarsi. Egli non era né fascista né cattolico né comunista, ma nella temperie di quegli anni era difficilissimo “non essere”. Quando si trattava di “essere”, Moravia considerava l’azione un rischio per la possibilità del compimento del male, temeva che ad agire si compisse il male.

E si ritraeva nella illusoria idea che l’artista non agisce ma scrive, è per questo che i personaggi di Moravia sono inattivi dico inattivi moralmente, non combattono, non si schierano, finiscono con l’avere un atteggiamento di osservazione verso la realtà, “guardano” la realtà, più che altro. Anche coloro che dovrebbero agire come ad esempio il Michele de La ciociara, di “sinistra”, non agisce ponendosi il terribile problema del male nella storia. In quanto a Gli indifferenti, Agostino, La disubbidienza, siamo al di qua dell’agire. Soltanto ne La romana vi è un tentativo di azione. Ma qui sta anche l’equivoco che Moravia generò e poco o nulla fece per non ingenerarlo, egli “passò” per un comunista non essendolo e fu un equivoco che imperversò nella cultura italiana di quegli anni e che cerco di ricostruire, equivoco pernicioso, ritardando un progressismo non comunista, giacché l’identificazione tra progressismo e comunismo suscitò l’adesione al comunismo di persone che comuniste non erano.

Di questo equivoco Moravia fu un protagonista. Anche se nella sua opera, specie quella saggistica, da non sottovalutare, non vi è alcuna adesione al comunismo, i suoi comportamenti sociali provocavano questa ambiguità. Insomma: non vi fu dichiarazione di anticomunismo da chi comunista non era. La mia generazione visse drammaticamente questa ambiguità. Ma non vorrei limitare Morava a tale questione, egli fu un instancabile viaggiatore, amava l’Africa, non al modo di Pasolini, il quale, ne scriverò, scorgeva nell’Africa l’ingenuità, la purezza preindustriale, preconsumistica, preborghese, Moravia non si faceva alcuna illusione su popoli o civiltà o classi, dell’Africa amava la natura ancora naturale. Una sera che eravamo soli, a via dell’Oca, nella sua casa di mobili robusti, con luci non dall’alto, da borghese, non so come il discorso cadde sulla fortuna, la buona sorte. Moravia si considerava un malriuscito, era di una malinconia consustanziata.

Io, che mi dilettavo di chiromanzia, avendogli osservato le linee della mano, gli dissi che aveva la linea della fortuna. Non se ne convinse affatto, prese l’Enciclopedia italiana. Alla voce: chiromanzia, vi erano le linee della mano. La linea del sole, staccandosi dalla linea dell’operosità, saliva alla radice del dito anulare, appunto il segno del successo. Proprio le linee della mano di Moravia! Stupì, di avere un segno di fortuna, lui! Riportò il librone al suo posto, sedette di fronte a me nella poltrona, in penombra. E tornò malinconico. Non credendo in alcuna idea consolatoria né politica né religiosa, né comunista né cattolica, indicò alla mia generazione che pure nel deserto moderno possiamo amare la vita, l’arte, e difendere la libertà.


di Antonio Saccà