“Interno Bernhard”: un teatro a chiocciola

giovedì 19 gennaio 2023


Che cos’è Interno Bernhard, in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 29 gennaio, per la regia di Andrea Baracco e l’interpretazione di Glauco Mauri e Roberto Sturno? Si direbbe un “percorso a chiocciola”, come un’immaginaria scala ellittica scenografica che fora i piani della rappresentazione, dividendoli in due parti non combacianti: Il Riformatore del mondo; Minetti – Ritratto di un artista da vecchio, aggiungendo mistero all’impenetrabilità dei corpi. Soprattutto, se sono i fantasmi della memoria a salire e scendere quei gradini interni così stretti e ripidi. Fantocci in maschera agitati, nel secondo atto, da altri fantocci viventi, sagome nella polvere dei ricordi di un attore-feticcio di Thomas Bernhard (interpretato da un magistrale Glauco Mauri) come Minetti da Vecchio che, trenta anni dopo, si ritrova per un’immaginaria convocazione di un etereo direttore teatrale a scegliere lo stesso albergo, in cui un giorno lontano conobbe il grande artista e pittore James Ensor, che realizzò per lui una maschera del Re Lear.

E quest’ultimo è un nome magico, un mantra che il Vecchio ripete sulla scena decine di volte, rivolgendosi a turno a due giovani donne: la prima, una figura dissoluta, ubriaca e dalla risata isterica; l’altra una giovine casta e per bene (due aspetti della femminilità protagonisti di migliaia di opere teatrali sulla realtà umana e le sue società!), che attende compunta l’arrivo del suo fidanzatino, alla quale Minetti ripete “non vada via da Ostenda”. Per non commettere, come fece drammaticamente il Vecchio, il peccato mortale d’orgoglio del ritiro in se stesso per trenta, lunghissimi anni, dopo aver perso il famoso, ma mai approfondito, processo contro le Autorità comunali, che volevano estrometterlo dalla direzione del locale teatro, per aver Minetti rifiutato di onorarne la Classicità.

Ed è proprio quest’ultimo, il Dio Teatro, l’orrendo Totem che deve incutere spavento secondo Bernhard, perché l’attore bravo deve “disgustare” il suo pubblico, sommovendolo nelle viscere, per dire cose sgradevoli che trascendono e violentano quell’Olimpo etereo e dorato, che si blinda negli stereotipi delle opere del teatro classico (tutte, tranne Re Lear, ovviamente!), in cui tutto si ripete tranquillizzante e sempre uguale a se stesso. Così, in ossequio al Totem, la regia fa transitare figure di storpi, a monito della decadenza biologica e delle ancora peggiori infermità mentali (che affliggono soprattutto persone perfettamente sane!) che questi ultimi simboleggiano. Così, nel silenzio di tomba privo di parole, sfilano un uomo alto con un lungo cappotto che, in assoluto silenzio, accompagnato dal ritmo tristo delle sue stampelle di legno, attraversa per due volte la sala, così come lo farà un’altra figura seduta su di un invisibile trabiccolo per invalidi e una terza ancora, adagiata (non si sa bene se burattino o vivente) sulla carrozzella spinta da un altrettanto lugubre accompagnatore. Chi rappresentano tutti costoro, se non i volti tristi e macerati della vita che passa e ci lascia privi della parte vitale del movimento e, soprattutto, dell’agilità mentale, come quella che è venuta a mancare al Vecchio, palesemente afflitto da demenza senile?

E che ci fanno quelle teste di coniglio in una notte di Capodanno, che infestano il fondale della rappresentazione, ora affacciandosi dietro un pesante tendaggio o, nel finale, procedendo au ralenti per chiudere la scena di un Minetti morente sotto la tempesta di neve, non avendo più il denaro necessario a pagarsi il viaggio di ritorno, attendendo così nel sonno il capolinea della sua vita? Chi sono tutti questi figli, veri o burattini, partoriti dal Totem? E la follia dell’Attore Vecchio sta tutta nella sequenza di riti interni, come quello della recitazione integrale del Lear ogni 13 del mese davanti a uno specchio muto.

Idem, per l’abitudine parossistica alla ripetizione di pochi versi della stessa opera shakespeariana recitati ogni giorno, come una medicina quotidiana salvavita per la cura di una malattia cronica, dove il rifiuto ragionato per la classicità dei testi teatrali diviene una metodica maniacale asservita al loro studio ossessivo: un cancellare per un continuo post-riscrivere. E chi è, nel primo atto Il Riformatore del mondo (interpretato da un finto, bravissimo isterico Roberto Sturno), quell’inquietante personaggio che viene premiato per il suo “Trattato” sulla società, di cui però nessuno ha mai capito nulla, perché il fulcro sta tutto nel fatto che eliminando la specie umana il mondo sarebbe perfetto! Così, per il momento, l’orrido personaggio si limita all’annichilamento di una figura femminile ancillare, che si adatta per amore e per bisogno a quel degrado morale di un finto storpio per il resto del mondo, ma che nel privato intimo sa camminare benissimo e gode di perfetta salute, da buon molestatore!

Altro tremendo e impattante messaggio, quest’ultimo, contro l’apparenza e la doppiezza dell’animo umano, rappresentato dall’assurdità di una laurea honoris causa perfettamente immeritata e, per questo dissacrata e derisa dal Riformatore assieme alle autorità latori della pergamena di conferimento! Ed ecco, finalmente, l’apparire sulla scena di Sua Maestà Il Caos, il vero dominus della vita reale e dello spirito del teatro, per cui il protagonista confessa che: “Ogni viaggio è un vero martirio, con tutta la fatica che mi sobbarco forse ci vorrebbe un posticino ben soleggiato, ma io odio il sole. Un posto all’ombra, ma odio anche l’ombra. E poi mi annoio terribilmente, al mare mi viene mal di stomaco, le grandi città non le sopporto, in campagna è tutto così monotono. Quando sono a Parigi non so cosa darei per essere a Londra, se sono a Londra vorrei essere in Sicilia”. Tutti i luoghi, nessun luogo, come gli stati inscindibili e sovrapposti dell’animo umano!


di Maurizio Bonanni