mercoledì 18 gennaio 2023
Il libro “Stragi di Stato. Via Rasella, Fosse Ardeatine”, con la coinvolgente vivacità narrativa del generale dei Carabinieri, Antonio Cornacchia, ricostruisce con rigore storico-documentale una delle pagine più drammatiche della nostra storia patria.
Nel 1943 – osserva l’autore – “in quelle giornate di disperazione viene fuori un’altra Italia, non disposta ad essere succube della sopraffazione nazista né a rinunciare alla capacità di stare in armi, per i propri valori. Chiaro segno che una crisi di coscienza scuote l’intimo di tantissime persone spinte a scegliere individualmente, in assenza per i militari di ordini precisi e per i civili di riferimenti credibili”. In tale spirito si costituirono delle formazioni atipiche di “Resistenti”, precedentemente estranea alla mentalità ed al costume italiano.
Roma fu dichiarata unilateralmente “Città aperta” il 14 agosto 1943, e dopo l’8 settembre dello stesso anno (data dell’Armistizio con gli anglo-americani) si ebbe l’abbandono della Città eterna da parte del Re con il Governo Badoglio, mentre rimasero nella Capitale i Granatieri di Sardegna, i Carabinieri e la Polizia, numerosi civili e significative forze germaniche. Da tale data su tutti i fronti tedeschi furono imprigionati 650mila soldati italiani, definiti “internati”, e non prigionieri di guerra, per non consentire loro di godere di alcuna protezione internazionale.
L’11 settembre 1943 il feldmaresciallo Albert Konrad Kesselring fece affiggere sui muri di tutta Italia un’ordinanza con cui avvisava delle tremende reazioni che sarebbero seguite a qualsiasi attentato alle Forze Armate germaniche. A Torre di Palidoro (Roma) furono messi al muro 22 ostaggi a fronte di due tedeschi (peraltro morti accidentalmente), la cui vita fu salvata il 23 settembre 1943 grazie all’eroico sacrificio del giovane vicebrigadiere dei Carabinieri, Salvo D’Acquisto (22 anni) che, pur essendo innocente, si dichiarò personalmente colpevole, meritando la Medaglia d’Oro al valor militare e il riconoscimento canonico della Chiesa come “Servo di Dio”.
L’autore evidenzia che lo status di “Roma città aperta” venne ampiamente violato dai tedeschi, che ne approfittarono per rendere durissima la vita alla cittadinanza, pur risparmiando il patrimonio storico-artistico della Città eterna, che sarebbe stato peraltro oggetto di 51 bombardamenti degli anglo-americani, prima della liberazione del 4 giugno 1944.
Per chi avrebbero dovuto continuare a combattere i militari italiani dopo il cambiamento delle alleanze: per il Re fuggito a Pescara, per la Repubblica Sociale italiana creata dopo la liberazione del Duce, o ancora con i vecchi alleati germanici? La risposta a tale quesito la dette nel corso di una trasmissione televisiva il compianto generale dei Granatieri, Luigi Franceschini (figlio di un colonnello dei Reali Carabinieri), che da tenente aveva difeso il Colosseo e combattuto a Porta San Paolo. “Per chi abbiamo combattuto?”, disse e al conduttore, “per la Patria!”.
È noto il proditorio attacco mosso il 23 marzo 1944 da alcuni partigiani comunisti contro un inoffensivo plotone di Bozen, cioè di altoatesini di fede cattolica, non confondibili con le famigerate Ss: ne rimasero uccisi 33 e 110 furono i feriti, oltre a due vittime civili. I loro commilitoni si distinsero per un gesto di nobile disobbedienza, rifiutandosi di eseguire l’ordine di rappresaglia, di cui senza scrupolo alcuno si fece tuttavia zelante esecutore l’algido tenente colonnello della Gestapo, Herbert Kappler, che la dispose nel rapporto di 10 civili italiani per ogni soldato tedesco morto. Ma per un errore nella macabra contabilità ne furono uccisi 335, cioè cinque in più di quanto programmato.
Per essere libero di effettuare tale rappresaglia, Kappler riuscì ad ottenere che i Carabinieri fossero non solo disarmati, ma anche trasferiti, ritenendoli politicamente infidi. La strage delle Fosse Ardeatine segnò il primo netto spartiacque tra i comunisti e i cattolici in primis, ed a seguire con gli altri partiti antifascisti, tenuti non casualmente all’oscuro del vile attentato, che mai fu supportato da alcun consenso popolare.
Il console Eitel Friedrich Moellhausen – nella notte tra il 23 ed il 24 marzo 1944 – aveva inutilmente tentato una mediazione. supplicando Kappler “di non consegnare al plotone di esecuzione degli innocenti, (scongiurandolo) di riflettere bene sulle tremende responsabilità che implica(va) quella rappresaglia davanti agli uomini, ma soprattutto, davanti a Dio”.
Il giornale Risorgimento liberale, organo di stampa del Partito Liberale italiano, il 15 aprile 1944 in totale contrasto con i comunisti ed il loro giornale L’Unità, scrisse che il dovere primario dei resistenti era di scongiurare rappresaglie. “Gli antifascisti e antinazisti sanno i loro doveri: eviteranno alla città e agli innocenti le conseguenze troppo gravi delle reazioni tedesche, specialmente quando i risultati ottenuti, i danni gravi recati agli avversari, sono sproporzionati all’enorme ferocia della rappresaglia nemica, come accade in piena città. Ma non per questo metteranno meno impegno e determinazione nel perseguire i loro fini”.
Tra le vittime dell’immane tragedia, scaturita dalla vendetta tedesca, vengono generalmente ricordati don Piero Pappagallo, il tenente colonnello Giovanni Frignani, il maggiore Ugo de Carolis, il corazziere Calcedonio Giordano, il professor Pilo Albertelli, il generale Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e numerosi altri.
L’Osservatore Romano dopo l’eccidio delle Fosse compianse le 335 persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto. La carneficina fu il frutto di una cinica strategia, volta a provocare la reazione germanica, che a sua volta avrebbe determinato l’insurrezione del popolo, e quindi favorito la causa comunista, al fine di sviluppare una guerriglia urbana e – a seguire – un’insurrezione generale. La strage delle Fosse Ardeatine segnò il primo netto spartiacque tra i comunisti e i cattolici in primis, e successivamente con gli altri partiti antifascisti, tenuti non casualmente all’oscuro del vile attentato, che mai fu supportato da alcun consenso popolare.
Dal punto di vista giuridico – osserva l’autore – l’attentato sarebbe stato dichiarato nei vari gradi di giudizio, fino alla Cassazione, come un “legittimo atto di guerra”, pur trattandosi in realtà di una “strage inaudita” che, ideata, pianificata e autorizzata dal comunista Giorgio Amendola, fu compiuta da un manipolo di gappisti, tra i quali Rosario Bentivegna e Carla Capponi che, assurti ad “eroi”, furono addirittura insigniti di onorificenze al merito nel 1983.
A Fiesole – ma gli episodi di eroico altruismo nell’Arma furono assai numerosi – i carabinieri ventenni Vittorio Marandola, Alberto La Rocca e Fulvio Sbarretti, il 12 agosto 1944, si offrirono spontaneamente ai nazisti per salvare la vita di dieci civili presi in ostaggio. Nell’ottobre di quell’anno, duemila carabinieri furono fatti salire su dei carri bestiame sigillati dall’esterno ed inviati nei campi di concentramento in Austria, Polonia e Germania. All’ordine giunto da Adolf Hitler di deportare tutti gli ebrei romani, si era opposto anche Kappler stesso, in quanto consapevole dei rischi che ne sarebbero derivati nei rapporti diplomatici con il neutrale Stato del Vaticano, l’unico interlocutore efficace per qualsiasi tentativo di mediazione per una pace tra gli anglo–americani e la Germania.
Kappler, cui è dedicato un intero capitolo, fu personalmente conosciuto dall’autore di questa drammatica narrazione, durante la degenza-reclusione dell’algido tenente colonnello, vigilato costantemente dai Carabinieri nell’ospedale militare del Celio, fino al momento in cui tramite una ben organizzata “fuga di Stato” e non tramite una “rocambolesca evasione”, secondo la definizione dei giornali dell’agosto 1977, riuscì a scappare.
“L’Italia – scrive l’autore – aveva un disperato bisogno di denaro e, al fine di ottenere un prestito, barattò con la Germania il rilascio di Kappler, ricoverato (…) per una grave malattia”. Il generale Cornacchia, riprendendo la narrazione dei fatti seguiti all’8 settembre, evidenzia delle “stranezze” durante la fuga del Re: le autovetture reali furono fermate per tre volte dai tedeschi e vennero sempre lasciate proseguire. Solo il principe Umberto aveva manifestato il desiderio di rientrare a Roma, ma il padre fu irremovibile nell’ordinargli la partenza.
Verso la fine del libro, l’autore riporta una pregnante riflessione di Marco Pannella, il quale aveva osservato: “Anche noi (Radicali) abbiamo sempre sostenuto che i responsabili delle Fosse Ardeatine prima di Kappler (…) gli scellerati che, messe le bombe a via Rasella, nascosero la mano e mandarono a morire gli ostaggi. (…) Questo discorso sull’immoralità degli attentati, noi non violenti lo facciamo tutti i giorni da vent’anni. Il fatto è che se si accettano le leggi militari nella lotta politica e anche nella lotta internazionale, l’unica differenza purtroppo tra l’assassinio abominevole e l’eroico partigiano è se vincono i tedeschi o se vincono gli inglesi… Ma il discorso è scorretto, perché se tu giustifichi gli attentati di guerra del tipo di via Rasella, se accetti quello stile, allora ti apri la via a giustificare anche il terrorismo di Renato Curcio e non puoi pronunciare una netta condanna”.
Il libro, da cui sommariamente abbiamo estrapolato il “fior da fiore”, è la testimonianza di come una discutibile ragione politica abbia potuto sovvertire a distanza di tempo l’etica, la giustizia, la razionalità, offendendo la memoria di martiri innocenti e il dolore dei loro cari.
(*) Antonio Cornacchia, “Stragi di Stato. Via Rasella, Fosse Ardeatine”, Curcio editore, 310 pagine, 16,90 euro
di Tito Lucrezio Rizzo