“Ferito a Morte”: la Napoli di La Capria

venerdì 13 gennaio 2023


Che cos’è la “spigola”? Un pesce evangelico stilizzato o, semplicemente, l’oggetto del desiderio di una lobby di predatori? Vedendola soffrire, perdere sangue e dimenarsi disperatamente trafitta dall’arpione, c’è da chiedersi se la sua immagine sia solo un simbolo di un’umanità feroce e decadente, oppure un riuscito esercizio di abilità di chi resiste parecchi minuti in apnea attendendola nei corridoi di passaggio? Quesiti, questi ultimi, tra i molti ai quali lo spettatore si troverà a dover dare una risposta, non più da lettore ma da fruitore dello spazio artistico dello spettacolo dal vivo. Al Teatro Argentina di Roma va in scena fino al 15 gennaio Ferito a morte, adattamento a cura del regista Roberto Andò e di Emanuele Trevi del celebre romanzo omonimo di Raffaele La Capria, vincitore del Premio Strega 1961. Le vicende narrate dal protagonista Massimo (un bravissimo Andrea Renzi) vanno dai bombardamenti alleati del 1943 al 1954 quando le ferite della guerra si andavano lentamente rimarginando, e la bella società borghese tornava ai suoi ozi e alla sue vacuità, come farebbe il riflusso incessante dell’onda governata dalle maree della Storia. Una borghesia napoletana apolitica e a-progettuale che ondeggia tra bagni di sole in spiaggia e interminabili riunioni nel circolo cittadino, in cui si ritrovano a spettegolare tutti i soggetti coinvolti. Perché, poi, il Dominus degli oziosi impenitenti è sempre lui: S.M. “Il Chiacchiericcio”, di cui il figlio maggiore Nini (un eclettico, esuberante e onnipresente Giovanni Ludeno) è la figura prototipale. Un moto ondoso sempre uguale a se stesso che va e viene, tra amenità sessuali a doppio senso; vicissitudini familiari in cui si respira l’ordine del matriarcato di cameriera, madre e nonna, con quest’ultima carica a sua volta di ricordi celebri riguardanti importanti personalità della sua epoca, che però si miscelano esclusivamente nella nostalgia, senza mai farsi storia, né eredità d’esperienza da trasmettere a figli e nipoti, come una Misia in Do Minore.

L’ambientazione, soprattutto nell’ultimo quadro della sala da pranzo comune all’interno del circolo che fa da coagulo d’incontri della borghesia locale, si fa danza coreografica ora dinamica, ora statica e al ralenti, organizzandosi in scene per così dire “epigrafate”, in cui i personaggi si muovono freneticamente obbedendo a un comando invisibile per scambiarsi i posti ai tavoli rigorosamente singoli, affinché chi prende la parola quando arriva il suo turno sia chiaramente percepibile e individuabile. Così Gaetano, l’istitutore del figlio minore Massimo della famiglia De Luca, tromboneggia e sproloquia filosofando di politica e umanità varia, mentre le altre voci, alternandosi, seguono un impercettibile spartito musicale in un crescendo di note e di toni. E qui prevalgono e si esaltano le correnti rancorose tra prime, seconde e terze generazioni dove le due matriarche rimproverano rispettivamente a figli e marito di consumare le proprie giornate negli ozi e nell’irrilevanza, con scarsa o negativa incidenza sull’educazione dei più giovani. Una società borghese, quella descritta da La Capria, che non trova il suo senso, la sua “mission” di classe dirigente perché si lascia possedere dalle cattive abitudini, senza mai esporre un’idea felice e originale sulla costruzione di un futuro collettivo, annegandole in interminabili partite a poker.

Una sorta di piramide rovesciata, se si pensa a un crudele romanzo-verità molto più tardo e scomodo come Gomorra, che ha il suo “focus” nella sterminata base di un ex sottoproletariato divenuto un prodotto delinquenziale di largo consumo. Uno sterminato ambiente malavitoso quello della Napoli attuale, protagonista e artefice del destino malato di una società “nullificata” dalla mancanza di ideali, e dal desiderio smodato di avere tutto e subito, grazie a un’overdose di violenza consumata nelle fabbriche di strada del traffico di stupefacenti, dell’estorsione e dell’usura. Perché, ieri come oggi, Napoli ti ferisce a morte o t’addormenta! Tutto il contrario, per l’esattezza, dei bellissimi scenari di quiete e facezie che hanno il loro culmine nelle immagini dei fondali immacolati e trasparenti in cui si muovono con una grazia perfetta e naturale piante acquatiche e pesci d’acqua salata, secondo un ormai collaudo schema high-tech che, grazie alla tecnica cinematografica in 3D, amplia a dismisura gli spazi molto più statici della rappresentazione teatrale. Le storie dell’ozio, degli amorini stagionali che vanno e vengono (soprattutto quello piccante della franco-italiana Carla Boursier, di cui Massimo è talmente innamorato tanto da fallire il suo primo appuntamento erotico con lei) si adagiano su un ponte tecnologico scenografico del tutto originale.

La sorpresa scenica, infatti, è costituita da una terrazza balaustrata sovrastante al piano principale della rappresentazione (quello sottostante ha più boccaporti che trasportano da dietro le quinte interi ambienti arredati), per cui i personaggi che dal basso si vedono di spalle hanno invece una proiezione in alto e sul piano frontale, in modo che lo spettatore non perda nulla della postura fisica e dei dialoghi fra di loro. Così come lo sdoppiamento tra Massimo il Giovane e quello Vecchio che, ricordando le sue “giornate particolari napoletane” della gioventù trascorsa, fa da voce narrante seduto su di un monumentale letto singolo posto al di fuori del perimetro del palcoscenico, rappresenta nella sua dualità l’immagine sublimata del trascorrere del tempo, per cui i ricordi che sfilano sul proscenio rendono possibile raccontare soltanto la vita passata e accettare il limite di un presente di languida tristezza. Mentre tu il Vecchio, il mago, l’esorcista e il protagonista, hai solo il potere di far riapparire quei ricordi lontani secondo sequenze che hanno il rigore della casualità di un tempo mischiato, che impasta solo cose già accadute. L’unico vero incontro, misurato nel tempo attuale, è quello tra il Vecchio e l’ormai maturo ed ex mitico Sasà, lo sciupa femmine squattrinato che tutti invidiavano da giovane ma che, tormentato dalla sua vacuità, si ritrova a Roma senza un tetto né un lavoro, anche lui a rimpiangere l’ingratitudine di chi, nei tempi andati, gli ha dovuto così tanti favori.


di Maurizio Bonanni