“Close”, il segreto nella rovina

giovedì 29 dicembre 2022


Qual è la “cifra” dell’amicizia? Sostanzialmente, per capire, occorre munirsi di un cifrario per ottenere poi una cosa cifrata. Il primo, è costituito da un linguaggio di silenzi, di sguardi sognanti e penetranti, creature di un climax mutante che fugge sempre più rapidamente lontano dalla sua infanzia, come farebbe una sfera di fuoco passionale alle origini di un universo “emozionale” appena nato. L’altra, per la sua complessità, è il limite di una sequenza crescente, che se risolta apre il Vaso di Pandora degli amori adolescenziali. Cosa quest’ultima che riesce benissimo al film “Close”, nelle sale italiane dal 4 gennaio, per la regia di Lukas Dhont e l’affascinante interpretazione dei due attori giovani Eden Dambrine (Léo) e Gustav de Waele (Rémi).

Perché, per gli ormoni che sbocciano, la vita è una corsa: soprattutto a piedi, tra campi bellissimi dei fiori d’Olanda, cresciuti già ricchi e densi di odori e colori. Steli alti quasi come fanciulli e loro reincarnazione per chi ha la fortuna di crederlo. Perché a quell’età, è così naturale e spontaneo rassomigliare alla parte essenziale del cucciolo in sé, che ama più di ogni altra cosa aggomitolarsi accanto al suo simile, per sentirsi plurale e al contempo un “mezzo uno” che, prima o poi, dovrà lanciarsi nel vuoto per imparare a volare. A meno che, gli capiti di sentire dentro di sé che quel suo volo dipenda esclusivamente dalla presenza di qualcun altro nato nello stesso nido.

E allora, giunto il momento topico, decide innaturalmente che nel suo caso o si sboccia alla vita in coppia, o si rinuncia (tragicamente) ad aprire le proprie ali alla scoperta dell’esistenza adulta. Un film, Close” che invita fin dall’inizio a “chercher la clé!” di questo mistero dell’inconscio. La cosa cifrata è racchiusa nella domanda gruppale di una classe di adolescenti tredicenni, del tipo: “Voi due (Léo e Rémi) siete una coppia?”. L’uno, Léo, nega recisamente, mentre l’altro, Rémi, tace sempre e comunque. E non è forse questa la “chiave” interpretativa di un bel film drammatico sull’adolescenza, in cui Rèmi muore suicida? Dietro alle scene girate si legge moltissimo del lavoro preliminare (come Dhont ha tenuto ribadire in conferenza stampa) che riguarda la ricerca incessante delle “connessioni” tra quelle due vivissime intelligenze di adolescenti. Con queste ultime che viaggiano lungo i percorsi misteriosi e istintivi del “non-detto”, degli sguardi complici, della fisicità della corsa a piedi e in bicicletta; due misure diverse di passioni identiche per la vita felice tra una natura sempre fiorita.

Un matrimonio inconsapevole di anime che seguono il bisogno assoluto di condivisione dei cuccioli fatto di composizioni allineate nel sonno, fonte del conforto assoluto della presenza reciproca. Ma che cosa accade quando la mano ostile del destino manipola questo filo etereo ma ferreo, obbligandolo a saltare uno dei due anelli dapprima legati? Ed è proprio quello spirito a nascondersi dietro l’azione gruppale di dubbio e richiesta maliziosa, affinché attraverso la risposta asimmetrica si dissaldino i due corpi e si determini in Léo l’assoluta necessità di dar prova inconfutabile della propria virilità e mascolinità. In primo luogo prendendo lezioni in uno sport duro e “fisico” come l’hockey su ghiaccio, per doppiare poi una sorta di suo personalissimo Capo Horn della dipendenza dalla presenza che gli fa prendere fisicamente le distanze da Rémi.

Il film interroga molto da vicino altresì le relazioni tra gli adulti coinvolti nel dramma, che sanno piangere e riflettere ma non riscaldarsi tra di loro, astenendosi dal mettere liberamente in gioco la cifra di umanità che sarebbe invece necessaria. E sono due madri a fare la differenza: l’una, Sophie (una brava ed emozionante Émilie Dequenne), quella di Remi, parasanitaria addetta alla nurserie, avvolgente come un fiocco di cotone appena colto, che accoglie come un figlio Léo, lasciando che i ragazzi vivano simbioticamente la loro relazione amicale e lei con loro, arrivando a perdonare persino l’abbandono, quell’arma sottile che ha segnato il suicidio di Rémi.

Mentre l’altra, Nathalie (Léa Drucke), è vittima del suo carattere introverso, disponibile alle lacrime all’apice della sofferenza, ma avaro nella comunicazione verbale, forse per un banale limite caratteriale. O forse perché succube del suo ménage familiare dalle rare soddisfazioni, dovendo svolgere assieme a figli e marito un duro lavoro quotidiano di semina e raccolta dei campi coltivati a fiori. Film da non mancare. Soprattutto da parte di chi si occupa professionalmente delle crisi in età adolescenziale.


di Maurizio Bonanni