Incontro d’autore

martedì 6 dicembre 2022


Questo libro: Ho vissuto la vita. Ho vissuto la morte diverrà oggettivamente percepito anche da me il giorno 7 dicembre nella sala della Fiera, a Roma, che riguarda l’editoria, e precisamente nel “punto” dell’Editore Armando. È una doppia biografia, della giovinezza estrema che estremizza la maturità, ed il tentativo di capire la nostra condizione naturale e storica e l’orientamento personale che vogliamo stabilire. Come ho dichiarato in varie circostanze il pubblicare nella rivista diretta da Alberto Moravia, Nuovi Argomenti, il Saggio sulla letteratura italiana attuale (marzo 1963) ebbe percussione mondiale, consentendomi collaborazioni che si compendiarono nel 1965 in un volume di poesie pubblicate da Vallecchi, il più scelto in campo, ne derivò il premio della Fiera Letteraria, la massima rivista letteraria tradizionale dell’epoca, relazioni estesissime, perfino l’insegnamento nella Scuola di Perfezionamento in Sociologia alla Sapienza, docente di Storia e Filosofia ai liceo lo ero già prima di laurearmi. Niente di che, ma avvenne quanto avvenne. Alberto Moravia fu la prima conoscenza, frequentatissima. Poi incontrai: Pier Paolo Pasolini, Renato Guttuso, Leonardo Sciascia, Rafael Alberti, il Nobel Michelangelo Asturias, Carlo Levi, Guido Piovene, Mario Luzi, Aldo Palazzeschi, Giorgio De Chirico, Ugo Spirito, Anna Magnani. In quel periodo la Sinistra si connetteva al proletariato crescente, difficilissimo gestirlo all’interno di un sistema capitalistico. Il proletariato sarebbe diventato la classe egemone, come veniva dichiarato, si sarebbe piccolo imborghesito mediante il consumo di beni, sarebbe diventato terroristico, avrebbe accettato la filosofia edonista degli studenti?

Quante incertezze, quante valutazioni! Occhetto, Asor Rosa, Alberoni, Bevilacqua, Pratesi, Colombo, e Moravia, Pasolini, Spirito, Colletti, in varie sedi, all’Università e in una rivista che regolavo, Opera aperta, diretta formalmente da un degnissimo sacerdote, Sante Montanaro, avevo per collaboratore un altro sacerdote, rimpiantissimo, il gesuita Virgilio Fagone. Era il famigerato incontro cattolico-comunista, si spaziava: il pericolo del primato tecnico-scientifico, il terzomondismo, se avremmo avuto come “valore” solo o soprattutto l’erotismo, o l’eroismo o il terrorismo, o il comunismo alla cinese, del tutto, allora, antioccidentale. Attingendo ai dibattiti, alle conferenze di allora, per il libro odierno mi sorge il sapore dell’epoca come un giardino. Non solo le idee ma persone, corpo, occhi, gesti, sensazioni, parole, episodi, ho rappresentato la realtà: ho vissuto la vita, per dare l’impressione che vi è stata vita. Tra gli anni Sessanta-Settanta, vicende, idee, individui. In quanto a me, ebbi compagna una attrice nota, a quei tempi, con un salotto tutto suo, che ampliò le presenze del passato, successivamente un matrimonio con una personalità della borghesia. Ma di queste circostanze, un cenno, non manifesto una biografia personale ma culturale e sociale. Al centro degli Anni Settanta sentii che la civiltà europea non sarebbe stata salvata né dal proletariato, né dalla borghesia, né dalla scienza, né dalla tecnica ma dalla cosciente volontà di mantenere la libertà stretta alla qualità umanistica ossia arte, espressività, valore dell’individuo. Non cercare il consenso abbassandosi, cognizione del passato, chi è stato l’uomo europeo continuandolo senza svilirci di fronte ad alcun altro popolo, alcun’altra civiltà, argine umanistico nel senso detto contro la degeneratissima concezione odierna, che per il solo fatto di inventare prodigi tecnici essi valgono, come a dire, se l’esplosione nucleare può uccidere milioni, ecco un gran fenomeno, attuiamolo; se è producibile la carne sintetica perché escluderla?

E se possiamo immettere un chip nel cervello e condurre caninescamente l’uomo perché non determinarlo con un chip? E se i mezzi di comunicazione vociferando rendono capolavoro una pezza da piedi perché non farla capolavoro o non condurre il pubblico? O far partorire un uomo, farlo nascere senza organi genitali operativi, pandemizzare: se tutto ciò può essere fatto perché non farlo? Mancando un argine umanistico il possibile diventa il fattibile! Intelligenza artificiale, Metaverso, viaggi ipotizzati nel tempo passato “realmente”, tutto si sta volgendo alla dissoluzione delle civiltà e degli individui con orientamento a entità non specifiche pseudo umane o addirittura alla diserzione dell’umanità ormai superflua. Umanità superflua! Attenzione estrema a questa evenienza. La scienza e la tecnologia potrebbero rendere superflua l’umanità! A chi devono rispondere scienza e tecnica se non abbiamo una valutazione dell’uomo che intendiamo proporre? Il centro ideale del libro è in queste convinzioni: un argine umanistico alla scienza ed alla tecnica. Ma vi è una seconda parte: Ho vissuto la morte. La mia duplice infezione virale. Lascio a chi leggerà la narrazione dell’esperienza di chi ha vissuto la malattia, e non ne parla dall’esterno o come modo pe sanare. In quanto malattia vissuta è l’esperienza illimitata che la coscienza attinge ai confini dell’essere vivo e alla porta spalancata dell’incoscienza. Un milliminimissimo istante separerebbe coscienza e corpo, e tu, cosciente e delirante insieme, avverti che “quello” è il momento della fine. Ma no, no, Ospedale Lazzaro Spallanzani, Ospedale San Giovanni Battista, mesi, mesi, la coscienza si ristringe al corpo, il corpo alla coscienza, torno un Io, strade, città, casa, il presente, il passato. Il futuro.

La storia, la nostra storia, europea nazionale civiltà umanistica per tenere a freno l’esibizionismo della potenza tecnologica fine a sé stessa: tutto ciò che possiamo fare, lo facciamo. Senza una idea di limiti, ma prova di potenza per la potenza. Pessima determinazione. Durante, dopo la malattia sono massimamente convinto: bisogna ridare scopi umanistici all’uomo interiore non solo alla potenza degli strumenti. Cultura classica, Umanesimo, rapporti tra esseri umani, emozioni, sensazioni, arte, natura, animali, vita tra vivi. Alberto Moravia era malinconico, pensoso, se qualcosa lo avesse tratto gli si sarebbe schiariti lo sguardo, avvertiva l’intelligenza con immediatezza, traeva considerazione dalla sua irrequietissima emotività. Una sera conversavamo nella sua casa, a via dell’Oca n. 27, accanto al ristorante Il Bolognese, a Roma, e si diceva scontento, non a parole, era scontento, accennai che aveva sulla mano il segno della fortuna, si recò in una stanza, un volumone, apre, Chiromamzia, il segno della fortuna, la stella nella base dell’anulare, guardò, si guardò la mano, chiuse il librone, lo posò, malinconico quanto prima.

Con Pasolini cenavo al Bolognese, verso le 21-22, si stringeva nei giacconi di pelle, saliva sull’Alfetta e si avventurava in chi sa che tensione di vita, di morte, dannazione, violenza, vita che era morte; la Magnani cercava di amare se non di esserlo, rideva finta spesso, ma rideva anche con voglia di felicità, umanissima comprensione, era pazza per gli animali, tuttavia ombrosissima, e con impeti ferigni; che larga vitalità in Rafael Alberti; Giorgio De Chirico non diceva parola, bianco, alto, occhi tre volte il normale, castagne calde, dava piacere a parlargli viso a viso; la tristissima malattia di Vasco Pratolini, di Guido Piovene. Ho vissuto la vita. Ho vissuto la morte. Carlo Levi, così affabile, il nervosismo vitalistico di Renato Guttuso, Leonardo Sciascia, amichevole affabile. Di ciascuno ho immagine netta come li avessi accanto, ormai sono tra i pochissimi a ricordarli da vivi. E se non ricordassi loro non ricorderei me stesso. Il giorno 7, Fiera del libro, li incontrerò. Poi il libro avrà la sua sorte. Gioco d’azzardo. Non c’è alternativa. Dovremmo, dobbiamo renderci fine di noi stessi. Molto del libro è scritto in versi. Parole, cadenze. Non bisogna comunicare. Bisogna esprimere.


di Antonio Saccà