Mandare in vacanza la “Commare secca”? Ci pensa Lara Luciano

giovedì 27 ottobre 2022


La commare secca va in vacanza” (Gambini Editore 2022, 157 pagine, 16 euro) è il titolo di questa intensa opera prima di Lara Luciano, autrice trentina trapiantata a Roma. Un testo che è un azzardo per la Gambini Editore, casa editrice umbra, che ha scommesso su questo originale diario di una malattia, nel quale salta fuori con gran forza quella urgenza comunicativa che così tipicamente traspare in tutti quei romanzi che hanno una matrice autobiografica, quando sono ben riusciti.

Questa è la storia di una “discesa agli inferi e ritorno”. Una sorta di “Apocalypse now” personale dove però, diversamente che nel capolavoro di Coppola, chi compie il lungo viaggio ha solo una vaga idea di cosa troverà lungo il cammino. Un intenso e sofferto percorso che ha come protagonista una giovane donna affetta da anoressia nervosa che, a seguito di un tentato suicidio, è ricoverata in una clinica psichiatrica.

Una discesa fin dentro i bassifondi della propria coscienza che si snoda nella distanza tra una Roma domestica – di cui il titolo stravagante di belliana (e anche pasoliniana) memoria porta l’eco – e lo spazio bianco di un luogo non meglio collocato, come una di quelle città invisibili narrate da Calvino, dove i nomi veri, come avverte la stessa Autrice, “intitolano ben altre vicende, che nella realtà e nell’invenzione stanno sempre troppo strette”.

L’esperienza della crisi e la permanenza stessa in quel luogo di cura, dove soprattutto può osservare chirurgicamente le storie delle altre persone e delle loro sofferenze, offrono alla protagonista l’occasione per operare una profonda quanto lucida e toccante riflessione sul significato stesso della sua malattia. E sul valore simbolico del corpo, al quale lei sembra avere affidato il compito di esprimere il suo tormentato rapporto con sé stessa, il mondo, gli altri e – in definitiva – la vita e la morte. Sullo sfondo, la relazione d’amore e convivenza con la donna amata, scoperta, combattuta ed accolta attraverso un combattimento corpo a corpo con la propria esperienza di fede. Battaglia sanguinosa e a tratti crudele, ma che lascerà vivi entrambi: amore e fede.

Quella della protagonista è una voce che si esprime con il rigore e l’intransigenza proprie di chi ha deciso di esporsi completamente senza concedersi sconti, mettendo a nudo i propri pensieri, i propri limiti, le debolezze, le paure più recondite. Senza però mai scadere nell’autocommiserazione più compiaciuta o nell’ostentazione scandalosa delle proprie sofferenze. Quello che più colpisce è infatti come l’autrice riesca ad affrontare il tema terribile del male di vivere con una lievità dolce e compassata, con tratti ironici sparsi qua e là, smorzando la carica angosciante che gli argomenti di cui parla – il suicidio, la depressione, l’anoressia, la discriminazione subita per la propria identità sessuale – inevitabilmente comportano. Nello stile e nella narrazione si applica una precisa strategia che si alimenta di una gentile forma di sprezzatura, attraverso cui la protagonista osserva quanto la circonda con una paradossale indulgenza ed accettazione, senza prestare il fianco all’invettiva o all’autoaccusa.

Procedendo con il racconto, l’autrice stessa distoglie il lettore da quella forma di voyeurismo verso il male che depotenzia lo sguardo. “Nei luoghi della malattia si fanno incontri inopportuni e insani che si aggirano come miracoli sporchi e infetti. Tanti giudizi universali in attesa di compiersi. Tante catastrofi in corso. In questi posti la gente, mentre cerca la salvezza con tutti i mezzi, la insegna in modo gratuito ed inconsapevole” (p. 64). La via è, ancora una volta, quella indicata da Calvino: “Cercare e saper riconoscere chi è cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Il testo colpisce anzitutto per il suo forte valore di testimonianza, ma non solo. La “Commare Secca” affascina per la qualità intrinseca della sua scrittura, la ricchezza e la bellezza di molte immagini – di potente impatto visivo, da meritare il grande schermo o la tela – che spesso emergono come epifanie illuminanti, o correlativi oggettivi di quei vissuti interiori che sfuggono al bisturi affilato della più lucida e razionale autoanalisi. Bellissimo ad esempio, nel finale, il parallelismo tra l’anastilosi di un vecchio tempio e il processo di guarigione che ridona alla vita il senso perduto del sacro. La spiazzante penna dell’autrice trascina le mani del lettore sui muri lisci di quei corridoi, fa strizzare le narici tra le dita per gli odori pungenti del reparto e serrare i denti per la rabbia, sfianca nel tentativo di proteggere quel seme di speranza che vola sulle ali di una piccola mosca samurai.


di Fabrizio Federici