“Pupo di zucchero”: più morti che vivi

martedì 25 ottobre 2022


Qual è la differenza tra il “Pupo” pirandelliano (“Ognuno di noi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede di essere”) e il “Pupo di zucchero” della tradizione napoletana, in occasione del giorno dei morti? Semplice: l’uno si crede vivo pur essendo morto dentro di sé, mentre l’altro, piccolo sacrificio pagano e incruento, è un invito al trapassato a tornare per una sola notte a fare compagnia incorporea a chi resta. Liberamente ispirato al Cunto dei Cunti (Il Racconto dei racconti) di Giambattista Basile, prolifico favoliere napoletano del XVII secolo, va in scena al Teatro Argentina fino al 30 ottobre Il pupo di zucchero, per la regia di Emma Dante, con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgrò (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita) e Valter Sarzi Sartori (zio Antonio).

La scena è costruita con una cifra minimale, tutta “pelle e ossa”, dove gli arredi vengono trasportati di volta in volta dalle figure in campo, quali un banchetto rialzato per impastare; una piccola seggiola; una branda richiudibile una tantum; elementi di un telaio metallico che si ricompongono raffigurando una grande croce al centro e nove ganci appendi carcasse, o spoglie mortali, sistemati nella parte in alto della cornice. Cosicché l’intero spazio del palcoscenico rimane vuoto e libero, in modo che la regia coreografica possa sfruttare allo sfinimento il movimento degli attori ballerini, pretendendo da loro il massimo della fisicità, con volteggi e movimenti d’ensemble ora accelerati, ora lenti. L’idea, in fondo, è quella dei personaggi-ologramma, illusori, a-fisici, muti e trasparenti per raffigurare l’anima leggera che spetta alle persone defunte, potendo i vivi passare attraverso quelle ombre tridimensionali come si fa con il vento, per tornare al punto di partenza di una solitudine irreversibile, malattia inguaribile quest’ultima dell’età molto anziana.

E lui, il Vecchio, appare in scena contornato da un trittico di donne vestite di nero munite di campanellini come le renne di Santa Klaus: tre sorelle di lui, di cui una, Viola, è ritratta all’impiedì mentre tiene per mano una bambola dalla statura di bambina. Ologramma-burattino quest’ultima, in rappresentazione di quel Doppio nell’Ade di una Viola che ha lasciato da giovane la vita, uccisa dall’invidia delle sorelle perché la sua bellezza attirava falene maschi da ogni luogo, e persino un principe spagnolo, mezzo toreador e mezzo danzatore di flamenco. Quell’invidia omicida che, all’improvviso, la fa cadere riversa di lato con il suo sembiante bambino ogni volta che le tre figure, Viola, Rosa e Primula, si ritrovano assieme. E mentre il Vecchio si dispera cercando di far lievitare il suo pupo di zucchero, le ombre dei morti richiamate da quel dolce invito affollano la casa, che rimane desolatamente vuota per il resto dell’anno. Così, i personaggi-ologramma fluttuano in un’atmosfera densa, dove semenze di qualche “cunto” si mescolano alla terra dei morti, senza che il Vecchio riesca a tirare le fila del Nulla che lo circonda, perché alla fine non rimane nessuno all’altro capo di una lunga fune bianca e sottile come la filatura di un ragno.

Solo i suoi ricordi diventano ologrammi con i quali parlare in quella notte fatata senza ottenere risposta, come quella sua adorata Mammina che appare curva e dolcissima, loquace e implorante nei confronti del suo destino amaro, in quella sua originalissima lingua franco napoletana che invoca per migliaia di volte, invano, il ritorno del marito marinaio scomparso in mare e mai più tornato. Così, nel riaffiorare dei ricordi del passato, l’ensemble degli attori in scena, spogliandosi dell’abito del lutto e rivestendosi di paillettes scintillanti, entra in una finestra temporale riandando a molti anni prima, quando Mammina e Papà, giovani ed esuberanti, si esibivano in danze sfrenate in occasione delle feste e dei compleanni.

E, poiché la vita è un impasto dolceamaro di farsa e tragedia, dove l’Orco si alterna al Principe che sono entrambi in noi (e ciascuno dei due si conforma al suo interno, come ci ammaestra il favoliere filosofo del Cunto dei cunti, come lo Yin e lo Yang del Bene e del Male!), riemerge il ricordo del rapporto violento e sadomaso tra lo zio Antonio e la zia Rita, di cui va in scena, con l’assoluto verismo della rabbia simulata, il femminicidio a calci e pugni della donna da parte di quell’uomo da nulla di suo marito, pazzo di gelosia. Intanto, il Vecchio combatte e impreca contro quel pupo che non ne vuole sapere di crescere.

Belle e suggestive sono le fontanelle di zucchero e farina che i personaggi lanciano in alto quasi come un impossibile auspicio di fertilità, o bianchi fuochi d’artificio per le festività, in occasione della raccolta in gruppi all’interno di narrazioni omogenee, con il vecchio protagonista al centro del cerchio magico. Poco male, visto che per l’occasione la folla degli ospiti, soprattutto Pasqualino, il figlio adottivo di colore di Mammina, si attiva per dare muscoli a chi per ragione d’età ha perso il tono e non riesce a impastare con la necessaria energia la pasta lievitata. E, tanto per gradire il regalo, le Anime Salve si fanno giocolieri, assaggiandone pezzi a morsi e lanciandosi in aria quell’impasto in mala crescenza, finché al ritorno del Vecchio, come per incanto, compare la figura intatta e ben formata del Pupo di zucchero, con grandi perle colorate al posto degli occhi e della bocca, come si addice al dolce dei morti di un mastro pasticcere.

E così, mentre lascia la casa con il suo dono simbolico (per cui il morto si potrà nutrire dell’immagine dolce del vivo che fu), il Vecchio viene accompagnato dal corteo funebre delle anime della sua famiglia, che trascinano dinnanzi a sé il loro status reale di burattino-zombie (manichini catacombali tutto stracci e ossa di Cesare Inzerillo), per l’ultima promenade macabra al culmine della Festa del 2 Novembre. I ricordi escono così uno a uno di scena, dopo avere appeso la loro spoglia mortale al telaio cimiteriale dei già viventi, come tanti manzi squartati sospesi a grandi ganci nel negozio del macellaio. Perché questo, in fondo, è la vita: una massacro di noi stessi! Così, dopo aver acceso una corona di lumini tutto attorno a sé ed essersi seduto su quella stessa piccola e scomoda seggiola dove tutto è iniziato in quella notte dei defunti, il Vecchio può, finalmente, pregare per la salvezza delle anime del Purgatorio, per addormentarsi in preghiera con la testa reclinata e forse per sempre, finalmente in pace e a luci spente per un viaggio senza fine e senza più ricordi struggenti da far rivivere.


di Maurizio Bonanni