“La vita davanti a sé”: dal letame nascono i fior

venerdì 21 ottobre 2022


Quando una prosa d’avanguardia allunga la vista! Accade a Romain Gary, discusso autore di La vita davanti a sé (Edizioni italiane di Rizzoli 1976 e, più di recente, Neri Pozza nel 2009), Premio Goncourt del 1975. Gary, dopo aver perso la seconda moglie, morta suicida, deciderà di seguirla cinque anni dopo, nel 1980 e a soli 66 anni, sparandosi un colpo alla tempia, ma solo dopo aver indossato una vestaglia cremisi affinché non si notasse troppo il sangue, una volta fuoriuscito dalla ferita. Del resto, Gary era maestro in travestimenti, avendo vinto per ben due volte il Premio Goncourt grazie a due diversi pseudonimi, malgrado il regolamento relativo vieti di attribuire un secondo riconoscimento a uno stesso autore.

Però, e questo lo sapeva bene Gary, il premio non poteva essere ritirato in quanto il riconoscimento stesso è dedicato al libro e non a chi lo scrive realmente! Finalmente, anche a Roma, al Teatro Quirino, fino al 30 ottobre, va in scena la riduzione teatrale di La vita davanti a sé, spettacolo magistralmente interpretato da un monologante e bravissimo Silvio Orlando che, come tutti i grandi attori d’esperienza, compensa una mobilità ridotta e non più giovane con l’abbinamento straordinario di mimica e voce, che non mancano mai nemmeno una volta l’appuntamento con i momenti topici di quel dramma in farsa.

Al ritmo di musica Klezmer, accompagnato da un quartetto di musicanti, tra cui emerge una bella vocalità maschile, profonda e affascinante, venuta dall’Africa con la sua kora (una sorta di arpaliuto con una cassa armonica di zucca), Orlando costruisce in scena e in un atto unico l’infanzia di Momò di cui si fa magistralmente interprete, figlio di una prostituta, allevato in casa da Madame Rosà, a sua volta anziana del mestiere e reduce da Auschwitz. Madame che, una volta ritiratasi dalle case di appuntamento e dalla strada, aveva deciso al pari di una Ong con un solo dipendente, ovvero lei stessa, di dedicarsi in prima persona a dare un rifugio, un’assistenza e un po’ di affetto materno, in cambio di una piccola retta mensile, ai figli molto piccoli delle sue ex colleghe che non avrebbero potuto accudirli.

Il romanzo e la pièce che ne deriva sono tutto un susseguirsi di pieni e di vuoti, in cui le altre madri, ma non quella di Momò, si fanno vive sporadicamente, visitando i bambini di preferenza una volta a settimana e soprattutto di domenica. Ed è inutile per il disadorno ragazzino cercare di reclamarne a tutti i costi la presenza, defecando in casa e commettendo ogni sorta di stranezze, affinché spazientita ed esasperata Madame Rosà, imprecando contro Auschwitz, richiamasse imperiosamente all’appello quella madre due volte sciagurata.

Lo scenario si presenta come un peschereccio d’altura, con le corde incipriate di piccole luci e una grande, invisibile rete immaginaria per la pesca di anime, con una monumentale torretta condominiale al suo centro, in rappresentanza del fatto che Madame Rosà aveva il suo appartamento al sesto piano “senza” ascensore. Passando gli anni e aumentando notevolmente il peso della povera donna, la sua diventava una sorta di fatica di Sisifo nel saliscendi, per cui alla fine da assistito Momò era diventato l’assistente e il badante preziosissimo di una sempre più immobilizzata Madame, che accudiva come se fosse un amante-figlio (senza Edipo!), rendendosi utile in ogni modo.

Purché, in base all’espresso desiderio dell’anziana donna, nessuno osasse, tantomeno il suo medico di fiducia, un umanissimo Dottor Katz, disporre il ricovero in ospedale a causa delle sue condizioni sempre più precarie e una demenza senile in peggioramento progressivo, con assenze sempre più lunghe e pronunciate di fuga dalla realtà. Tutto questo visto con gli occhi di un bambino che identifica la sua malasorte con il decesso per malattia e vecchiaia di Madame, cercando a suo modo, con piccoli furti nel quartiere a danno dei commercianti, di ricevere l’attenzione degli estranei, perché anche un ceffone dato a ragione al piccolo ladro rappresentava per Momò un avvicinamento da parte dell’Altro da sé, nella continua, ma mai a se stesso confessata, ricerca di una famiglia di adozione, come già era accaduto con successo a parecchi altri bambini della casa.

Ad assistere a loro volta Madame e Momò si prestavano altre figure del condominio verticale: un trans che si attiva meglio e più di una madre, visto il suo grande desiderio e l’impossibilità pratica di diventarlo; una famiglia di facchini, per il trasporto dell’armadio in carne e ossa di Madame a pianterreno e viceversa; e persino alcuni sciamani africani danzatori, chiamati d’urgenza accanto al suo capezzale per risvegliarne lo spirito assente. Poi, però, avviene il miracolo con una temporanea resurrezione dell’anziana nel pieno delle facoltà, quando c’è da difendere con le unghie e con i denti, ma soprattutto con una clamorosa bugia, la permanenza del suo adorato Momò in quella casa.

Al momento topico, scatta la trappola razionalissima di Madame, quando si presenta alla porta per reclamare suo figlio il padre naturale di Momò, Kadir Yoûssef, prosseneta ma musulmano fervente, recluso in un manicomio criminale per aver ucciso la madre di Momò, prostituta ricercatissima dai suoi clienti e della quale si era invaghito il suo stesso protettore mettendola incinta. E che cosa c’è di peggio nel far credere a un malatissimo fedele di Maometto che suo figlio, purtroppo, per banale scambio di persona, è stato educato come un ebreo? Non resta che il colpo apoplettico e il trasporto clandestino verso il pianterreno da parte degli omertosi facchini del piano sottostante, per sviare eccessive curiosità.

Poi, però, c’è l’uovo. Che non è quello di Colombo ma l’illusione di un ragazzino che vuole una famiglia normale, ma che ottiene solo quella cosa fabbricata dal culo di gallina e una carezza, in cambio dell’esibizione della sua infinita tristezza di orfano. Poi, subito dopo c’è la speranza di Nadine, doppiatrice cinematografica con un marito medico, che affascina Momò con quei suoi filmati prodigiosi dove le immagini si avvolgono a ritroso, sognando così di poter accarezzare mille e mille volte quel volto di madre che ti guarda con amore appena nato, mentre nella vita reale una cosa simile non può accadere mai.

E al culmine della storia, per Momò non c’è che da accompagnare Madame al suo fine vita, tenendola nascosta nello scantinato, dove aveva da tempo attrezzato il suo “angolo ebreo”, per poi vegliarla una volta morta da solo e per intere settimane! Come fuori programma, al pubblico che non finiva mai di applaudire, Silvio Orlando ha offerto come regalo, con la promessa di un sorriso, un siparietto musicale in cui lui stesso si è esibito assieme al quartetto sfoggiando il suo amore di gioventù (“amavo la musica che però non amava me!”): un flauto traverso. Gran bello spettacolo. Da non perdere.


di Maurizio Bonanni