“Wild men”, il selvaggio incatenato

mercoledì 12 ottobre 2022


Come si coniuga “Fuga dalla civiltà” nel terzo decennio del XXI secolo? Malissimo, decisamente. Perché, oggettivamente, non esiste alcuna possibilità di ricreare la preistoria nel presente e il solo fatto di volerci provare seriamente va ben oltre la pura utopia. Difatti, che cos’è la figura del “buon selvaggio” nella società numerizzata, dove il dio supremo è il solito “uno-zero” dell’onnipresente e immanente Byte: lui, infatti, come lo Spirito Santo, ti raggiunge ovunque, anche là dove tu credi che il segnale non arrivi e la rete di satelliti non ti intercetti.

E qui “inizia l’avventura del nostro particolare Signor Bonaventura”, ribattezzato Martin, per l’occasione, una specie di Orso Yoghi danese, protagonista del film Wild Men, nelle sale dal 20 ottobre, per la regia di Thomas Daneskov, con Rasmus Bjerg (Martin), Zaki Youssef (Musa), Bjørn Sundquist (Øyvind) e Sofie Gråbøl, nel ruolo della moglie di Martin. In tremenda crisi esistenziale, suo marito decide di gettare alle ortiche gli abiti borghesi, dato che riteneva di averne abbastanza sia di moglie e figlie idolatranti, munite di coniglietto domestico, sia degli asfissianti legami aziendali fatti di riunioni noiose e assillanti. Scambiato il tutto con pelli rudimentali di animali selvaggi, acquistati (e non certamente “fabbricati”) arco, faretra e frecce, compresa tenda da campo e kit di sussistenza nei boschi selvaggi, Martin parte per percorsi aspri di montagna, portando con sé, guarda caso, cellulare e ricarica batteria.

Così, inventando ai suoi cari una scusa più che probabile, come un impegno di lavoro lontano da casa, si congeda in silenzio dal mondo civilizzato e, coperto di quelle strane pelli che non ha mai cacciato, si rifugia nei boschi profondi della Danimarca immergendosi ignaro nella sua splendida natura montuosa e silvestre, con negli occhi i riflessi dei suoi meravigliosi e gelidi laghi naturali. Prima disavventura incontrata: procurarsi il cibo cacciando una selvaggina di cui non conosce né le abitudini, né come si cucinano le loro carni. Morale: vista la sua mole gigantesca, non gli ci vuole molto per scendere disperato al primo centro abitato, senza avere con sé né denaro, né carta di credito per fare acquisti a debito, non rendendosi conto che fuori dal suo pianeta selvaggio e illusorio continuano a vigere le leggi secolari degli uomini e, in particolare, il Codice penale.

Ed è qui che Martin impatterà dolorosamente con la giustizia e le sue forze di polizia, con poliziotti fin troppo pacifici e imbranati, capaci di farsi togliere le armi di ordinanza da gente sprovveduta e da criminali improvvisati. Per fortuna che in questo scenario da Grand Guignol appare all’orizzonte un grande uomo in divisa, responsabile della locale stazione di polizia, l’ufficiale Øyvind, che svolge dignitosamente e con grandi doti e qualità umane il suo faticoso lavoro, appesantito dalla scarsa collaborazione e totale inadeguatezza dei suoi sottoposti.

Ovviamente, avendo portato con sé il telefono cellulare, smarrito poi in circostanze avventurose, ecco che il Dio Byte si riappropria della vita di Martin localizzandone la posizione, consentendo così a moglie e figlie di raggiungerlo nel suo paradiso illusorio. In parallelo all’esistenza assai precaria di Martin si svolgono altre vicende che riguarderanno tre ladroni spacciatori e trafficanti di droga, di cui il terzo, come nel Vangelo, si rivelerà un musulmano buono e leale, anche se un po’ alieno, preso in trappola da vicende più grandi lui e coinvolto con i suoi complici in un serio incidente stradale per l’investimento di un grosso cervo, mentre il terzetto cercava di oltrepassare il confine.

Ma il film racconta anche di tre diverse storie coniugali, tutte raccolte lungo le strade che passano per le montagne dove Martin si è rifugiato, che ci parlano di versioni completamente diverse dell’amore, con una coppia di automobilisti sprovveduti, in cui i due, lei incinta e suo marito alla guida, litigano furiosamente per alcuni comportamenti sessuali davvero curiosi e onanisti da parte di lui. Dall’altro campo contrapposto, si staglia la figura di una moglie innamorata e autorevole che assieme alle due figlie piccole fa salti mortali per raggiungere quel suo pazzo marito e riportarlo a casa contro la sua volontà.

A queste due unioni matrimoniali un po’ problematiche, fa da netto contrasto il buon vedovo Øyvind, che vive e pensa la sua vita di uomo solo in funzione del ricordo dell’amatissima moglie, con il solo, autentico desiderio di raggiungerla al più presto, guardando seduto e morente per l’ultima volta i bellissimi paesaggi delle sue adorate montagne. Per mitigare il clima di tragedia, che pur esiste nella farsa complessiva della storia, il regista Thomas Daneskov ci delizia con la disavventura dei due protagonisti, Martin e il suo amico trafficante Musa, a seguito del loro ingresso in un mitico campus di vichinghi pieno di colori variopinti e di “falsi Sé” psicanalitici, rappresentati da ridicoli marcantoni vestiti come Martin che, però, pagano con carta di credito tutto ciò di cui hanno bisogno nel loro illusorio villaggio primitivo, ricostruito come un set cinematografico, tenendo lucida la loro coscienza ecologista con macchine elettriche di lusso parcheggiate all’esterno delle loro capanne. Insomma, una commedia drammatica sui falsi miti del buon selvaggio in un’epoca in cui la fuga dalla civiltà è divenuta in pratica impossibile, perché il Dio denaro e il suo Spirito Santo dell’Uno-Zero sono onnipresenti e invasivi in ogni parte delle terre emerse.


di Maurizio Bonanni