Il superuomo di Marx e il superuomo di Nietzsche

domenica 18 settembre 2022


Quando le rivoluzioni della borghesia annientarono il passato artigianale e la relazione tra potere politico e potere religioso, l’uomo, l’intellettuale, l’artista ebbero un mancamento assoluto, per millenni religione e potere consacrato dalla religione e la Fede avevano costituito la presa dell’uomo sulla realtà, il mondo aveva senso, il potere aveva fondamento perché Dio lo conferiva. Sostituire Dio con la Ragione personale (Illuminismo), con la Razionalità storica (Idealismo di Hegel), con la Scienza (Positivismo), recidere la questione metafisica, il perché, e limitarsi al “come” o alla “prassi” fu il tentativo immane di quell’epoca. Molti lo considerarono un impoverimento, altri una conquista: limitarsi alla vita.

Trasformare il mondo, vivere fedeli alla terra, accettare l’essere dell’essere, il “c’è”, e finire l’indagine nell’essere dell’essere. Dicevo, taluni non si fermarono a questa chiusura nella mondanità. Ma anche all’interno della mondanità insorsero turbate. Trasformare la società? La creazione artigianale dell’individuo veniva sostituita dal prodotto in serie. Il prodotto in serie veniva offerto ai molti. I molti non erano gente di gusto. Il gusto decadeva per venire incontro ai molti. Emergeva la “simpatia” (oggi, degradando massimamente la definiamo “empatia”), se una merce è vendibile è premiata anche se orribile.

E l’arte? Il “prodotto” artigianale per essenza decadeva a fronte dell’utile seriale. L’uomo intellettuale, l’artista si disancorarono, il mondo non aveva valore se l’arte perdeva valore. Addirittura l’uomo perdeva valore se ci limitiamo al “come” e al fare e recidiamo il come mai esistiamo e esiste l’essere. Siamo in un universo di cui ignoriamo come mai esiste e dovremmo limitarci a produrre e consumare? Timore che l’arte si annebbiasse e che l’utilitarismo riducesse i margini esistenziali: quel periodo del XIX secolo si turbolenziò. Riferendoci agli artisti ne venne una esasperata ricerca di salvezza estetica, dolente, malinconica, orgogliosa, gli artisti, i misuratori della società, i sensitivi realistici gridarono la salvezza dell’arte con l’arte, la “forma”, il non utile, l’espressione, opporre, contrapporre, è necessario, contrapporsi alla riduzione utilitaristica della civiltà, una violentissima estetizzazione anche della vita.

L’arte, l’espressione, la Forma, talvolta si scorrazzò nel formalismo, talvolta si ebbe la “forma” che è il modo in cui la esistenza grezza si completa. Una nuova aristocrazia, non stemmata, dello spirito espressivo, un argine all’utilitarismo inespressivo, per il quale il vendibile è il valore. Nasce dall’ orrore di questa caduta il Superuomo dello spirito, l’uomo più cosciente di questo bisogno di Forma, l’artigiano nell’Era industriale, chi mantiene la necessità della Forma superando l’informe utilitarismo della merce-massa, l’uomo che vive per l’espressione cogliendo che l’espressione trattiene la vita e la fa rivivere. Fu Karl Marx, immedesimato nella civiltà greca, a sentire passionalmente questa necessità di superare (egli credeva dialetticamente, per inevitabile svolgimento storico, ed è forse il suo errore sproporzionato, ne dirò) il primato della merce sull’espressione, la mercificazione dell’espressione, con un altro pensatore, costui greco in sogno che si riteneva cittadino di Atene nel V secolo, comunque avanti a Socrate (per non litigare), tra Parmenide, Eraclito ed Empedocle, Friedrich Nietzsche.

Opposti, Marx e Nietzsche, in realtà coniugatissimi nel fine ultimo di rifondare la “forma”, l’espressività estetica. Marx ritiene la società borghese formidabile, in pochi anni ha compiuto quanto altre società hanno compiuti in millenni, opere degne degli acquedotti, delle piramidi, nulla da invidiare al passato. Utilitaristica estremamente, per queste imprese avvilisce il restante, si concentra sull’utile, sul profitto, sull’innovazione tecnologica ma la produzione in serie non mantiene la persistenza dell’individualità, non vi è la soggettività nel prodotto, il lavoratore compie gesti meccanizzati, è alienato in duplice modo: non pone sé nella merce, la merce che viene dalla sua forza lavoro non gli appartiene (per Marx). Che società è questa? Migliaia di persone, milioni, spersonalizzate e derubate del prodotto da loro adempiuto (per Marx)! Nei magnifici testi giovanili, Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx innova l’antropologia, l’uomo si realizza nel lavoro, ma il lavoro nella società macchinizzata, con il lavoro parcellizzato, ripetuto, senza apporto personale, del quale il lavoratore ignora lo scopo ultimo, e di una merce che non gli appartiene è lavoro alienato, dato e preso da altri, e, ripeto, impersonale.

Una rovina? No! Marx è un dialettico, la negazione è ragione di superamento a livello ulteriore. Quale? L’avanzamento degli strumenti di produzione! L’assatanata voglia di vincere la concorrenza luciferizza la borghesia che inventa, tenta, non si quieta, avanza nelle tecnologie fino a raggiungere una meta tremenda: l’uomo non serve al sistema produttivo, le macchine lo sostituiscono, tutto buio, allora? Ancora una rovina? Ma no, insisto, Marx è un dialettico: l’uomo lavoratore viene sciolto dalla maledizione, non suderà la fronte per sopravvivere. La liberazione dal lavoro manuale. Torna il paradiso, il non lavoro, la terra promessa, l’universalizzazione del messianesimo ebraico. Liberato dal lavoro manuale l’uomo si darà allo “spirito” e raggiungerà il superomismo, la pluriconoscenza, l’onnivalenza, fine della microbica specializzazione. L’antropologia di Marx si erge su terreno argilloso, egli ritiene che l’uomo è il risultato di situazioni storiche, condizionato dalle situazioni strutturali, l’uomo cambia, per dire: altro è l’uomo che lavora alle macchine, altro è l’uomo liberato dal lavoro che può dedicarsi a molteplici cognizioni e attività.

Liberato l’uomo dal lavoro manuale la genialità è a compimento, per tutti. Ovviamente con una conduzione economica e politica che vuole questa realizzazione dell’uomo onnilaterale. Sempre per lo sviluppo dialettico questa evenienza è inevitabile. E il soggetto agente sarà il proletariato (?). Dunque non è la natura, non è la consapevolezza a caratterizzare gli uomini, ma il lavoro, secondo che sia manuale o intellettuale, quando tutti saremo liberati dal lavoro manuale ci innalzeremo alla genialità annilaterale. Marx è nemicissimo dell’uguaglianza, anzi: dell’egualitarismo, che definisce comunismo dell’invidia, esalta la reciprocità dello sviluppo delle facoltà, gli altri non come ostacolo ma accrescimento vitale. Bellissima ipotesi. Per concludere, faccio per dire, in questa società genializzata non vi è da temere la morte.

Marx argomenta: la morte è una caratteristica della specie non un male individuale. Questa strabiliante concezione viene da utopisti francesi, ma ciò a parte, occorreva a Marx per eliminare la sofferenza della morte personale.

Tanto per accennare, Marx aveva scritto la tesi su Democrito ed Epicuro, Epicuro concepisce un’altra fandoniosa concezione: quando moriamo non abbiamo coscienza quindi la morte non esiste, se viviamo a maggior ragione non esiste! Trascurava che moriamo! Anche Friedrich Nietzsche ebbe qualche conato di fiducia che liberato dal lavoro manuale l’uomo si sarebbe dedicato alla cultura, all’arte. Ma se ne ritrasse con capovolta convinzione. Sarebbe stato il precipizio offrire a tutti la possibilità di acculturarsi, come per la merce la cultura si sarebbe adattata ai peggiori, il grado di civiltà precipitato, gli incapaci, i difettosi, i mendicanti del non sapere avrebbero richiesto, imposto l’adeguamento alla loro inferiorità, tutto troppo difficile per loro, abbassare, venire incontro, empatizziamoci.

Nietzsche è certo che le masse, nel suo linguaggio i cristiani, i socialisti, i ciandala avrebbero suscitato nei più forti il senso di colpa perché non si dedicavano agli ultimi, invece di servire il genio era il genio che doveva servirli. E che società ne sarebbe venuta? Nietzsche temeva che i più messi insieme (i socialisti, i comunisti, i cristiani, Nietzsche non li differenzia) contro il singolo genio potevano sconfiggerlo. Era dunque necessità che il genio da uomo superiore si rendesse Superuomo ossia privo di colpa nell’affermare la sua genialità, altrimenti la società sarebbe diventata un lazzaretto, così la definisce, la sopravvivenza dei peggiori. Per Nietzsche, ed è una ignorata identità con Marx, il più in basso è il più maligno, invidioso, teorico oscuro dell’egualitarismo all’ingiù. Nietzsche scompone il derelitto con il buono. E si affida alla volontà di potenza secondo la mentalità delle caste induiste, Codice Manu, per le quali chi era nella casta inferiore compiva un orrore sacrilego ad uscire dalla propria casta. Conciliare le caste con il Superuomo è impossibile, lo stesso Nietzsche fugacemente lo rileva.

Ma di contraddizioni o infondatezze se ne colgono a costellazioni. Marx e Nietzsche tendono, vogliono il Superuomo. Marx e Nietzsche colgono nell’accrescimento delle tecnologie evenienze grandiose. Entrambi temono che di queste potenzialità tecnologica se ne faccia uso inidoneo perverso. Marx dà per certo che la borghesia non metterà a servizio dell’umanità i mezzi produttivi che possono quindi devono servire l’umanità. Significa non pervenire alla coscienza che ormai il mercato è mondiale e comprimere la potenza produttiva è antitetica alla potenza produttiva, suscitando storture conflittuali. Non comprimere ma ampliare al massimo la potenza produttiva, sfogarla quanto possibile.

Per Marx lo sviluppo dei mezzi produttivi avrebbe superato la mentalità, la mente del sistema capitalistico della concorrenzialità impeditiva. Io ti impedisco di esportare, di comprare, di produrre, invece di dilatare le forze produttive per l’umanità dosarle per il maggior profitto. Non solo una stortura contro i possibili benefici per l’umanità ma una guerra perpetuata per frenare, imporre, distruggere. Per Marx o si raggiungeva la consapevolezza che le forze produttive dovevano manifestare la loro potenza pienamente o vi era lo sconvolgimento, l’irrazionalità sistemica. Le forze produttive compresse sarebbero esplose. Inoltre, pur con tali mezzi portentosi l’uomo non è sciolto dalla difficoltà della sopravvivenza, grandi mezzi e difficoltà di sopravvivenza; meno ancora tempo liberato dal lavoro per la cultura. Nietzsche, da parte sua è netto: i grandi mezzi tecnici hanno per scopo venire incontro alla non qualità delle masse, fini d’accatto. Non basta, è possibile un Superuomo non interno all’uomo ma del tutto meccanizzato.

Falsando totalmente l’ispirazione di Marx e Nietzsche, il Superuomo interno all’uomo, un accrescimento umano non tecnico, una protesi di superomismo (possibilissima!). Chi sceglie l’avventura marxista lotterà per liberare l’uomo dal lavoro manuale ritenendo che si volgerà al lavoro intellettuale, all’arte. Chi si riferisce a Nietzsche farà trincea per mantenere la cultura e l’arte al di sopra della ammassocrazia. Sgomenta oggi che i grandi mezzi sviluppatissimi sembra abbiano per scopo distruzione, coazione, interdizione. Di espansione che accresca la potenza produttiva di tutti e di ciascuno per il vantaggio di tutti e di ciascuno non vi è spioncino. E si badi, è un processo oggettivo. Non un vagheggiamento. Lo sviluppo delle forze produttive esige l’attuazione espansiva mondiale delle forze produttive. Solo la violenza può comprimerlo. In quanto alla tecnica che serve la cultura, il Superuomo per l’arte e l’espressione, Marx o Nietzsche o chi altri lo ispiri, non vi è sembianza, dicevo, neanche di una tomba senza croce. No, non è il Superuomo lo scopo delle nostre società. Ma abbiamo uno scopo “qualitativo”, oltre a stare insieme, ad essere società che civiltà siamo o stiamo diventando?


di Antonio Saccà