Giacomo Leopardi, tra nulla e niente

martedì 13 settembre 2022


Purtroppo qualcuno dubiterà, normale, è umano il dubbio, anche animale. Nel caso che manifesto, i dubbi non dovrebbero consistere, tale evidenza ha la situazione. La dico. Anni, decenni dal tempo in cui mi fu obbligo conoscere i luoghi dove nacque e malvisse Giacomo Leopardi. Per motivi comprensibili non ne ebbi conoscenza da persona a persona, in tali casi, lette presso che interamente le sue opere camminare dove mise piede, guardare dove stese sguardo, respirare dove respirò infelicità, tuttavia i suoi luoghi, l’amore è immedesimazione. Giunsi a Recanati, cittadina nitida, all’antica, dell’Italia delle piccole città e dei borghi che recano la civiltà del passato come una corona nei musei.

La statua, evidente. Poi, soprattutto, la casa, il palazzo, gli stemmi del casato, i libri, Monaldo, il padre, era un bibliofilo sperperatore. Giro, la grafia lenta, pensata di Giacomo Leopardi, in specie dei poeti lirici che si incantano sui termini, e invece un fulmine, un botto, tuoni, terremoti, barcollo, possibile? Impossibile! E tuttavia! Inaudito! Sopra un tavolinetto, in mostra, sogno? No, tocco, prendo, apro, guardo, vedo, leggo: Per Antonio Saccà, quando verrà. E la scrittura è di Giacomo Leopardi, me ne intendo. Non abbonderò in stupefazione e stregonismi. Un lascito di Giacomo Leopardi per me e perché io lo leggessi, non mi inoltro a stupirmi perché nei secoli non fosse preso, suppongo rispettassero la volontà dello scrivente. Basta. Ecco il testo di Giacomo Leopardi.

Se anche viaggiassi tutti i pianeti, uno ad uno, visitandoli, uno ad uno, scorgendo ramificate costellazioni e prepotenti galassie e vuoti immensamente larghi ed estesi e viaggiassi nelle periferie dell’universo; se tornassi indietro salendo e scendendo, scorgendo nuove plaghe e nuovi abissi, estensioni di mirabile sgomentazione, questo insieme da stupire e rapire mi verrebbe a noia e pena, se devo morire. A me non basta neanche l’universo, la coscienza del nulla mi annulla ogni particella d’esistenza, l’immane e la minuziosa. Neanche se io fossi un Dio mortale mi conforterei. Avevano ragione gli antichi ad assegnare agli Dei l’immortalità. Lasciando agli uomini l’infelicissima mortalità.

Non soltanto l’infelicissima mortalità, ma la coscienza della mortalità. Io, Giacomo Leopardi, sono colui che ha inciso per l’intera umanità e più di chiunque la consapevolezza del “per sempre” della morte, in vita ed in morte, la morte durante la vita, la morte nella morte. Respiro e immaginavo mi si fermasse, vedevo e l’attimo mi dichiarava potresti non vedere, toccare e non più toccare, avere coscienza e perderla, io, Giacomo Leopardi conficcato alla ruota del nulla consapevole. La verità. La condizione umana. Forse non moriamo nel mentre viviamo? Forse che non moriremo e per sempre? Allora? Pensai.

Un sovraccarico di potenza. Uno scopo animosissimo, invadente, le piramidi, la grande muraglia, smemorarsi in propositi cosmicheggianti da non distrarsene, scopi impossibili ma che traggono e distraggono dalla coscienza del Nulla, sforzi da rompersi la schiena dei pensieri. Io studiai per distrarmi dalla coscienza della morte. E, tra noi uomini, vicendevole compassione, sciagurati mortali come siamo. Basta la Natura alla infelicità estrema, morire, perché anche il male tra noi? Talvolta mi sobbalzavano alla mente tempestose determinazioni che altri pensarono e decisero: vivi la tua forza senza riguardo, innalzala, costi delitti e distruzione, purché ti edifichi.

Non stare al mondo per sollevare lo sciancato, dare guida al cieco, ma vola e opprimi pur di innalzati e distrarti con immani adempimenti. Un sovraccarico di potenza che strappi il timore di essere non solo nulla ma addirittura niente. Nulla lo sono irrevocabilmente, l’essere è nulla, ma Niente, Nullità non lo dovresti essere. Sì, talvolta mi animarono correnti di furente animazione: massacrare, uccidere, incendiare per distrarmi dalla morte e non vivere frenato dagli altri. Esisto solo io e quel che voglio. Talvolta invece una pietà vasta, confortarci d’essere nati come siamo, e destinati al nulla. Del non sapere come mai esiste l’esistente e che l’esistente è destinato a sconvolgersi ricreandosi diversamente scrissi, ed è la verità. Irrisi l’uomo che si pavoneggiava ricordandogli la cornice del Nulla, glielo ricordai, è la mia unica certezza.

Però non resi uguale l’alto e il nano, il bello e il vacuo, tutto inutile, tutto sullo stesso livello. Mantenni criterio di valore. Su che fondamento? Sul mio sentire. Quando pure considerai infelice mortale e annientato ciò esiste mai spregia le imprese azzardate e che distraggono dal nulla. Altro è concepire il nulla, tutt’altro essere niente, svalere, renderci uguali e trasandati perché moriamo. Il Nulla esige grande comprensione, il niente è per tutti. Mi trovo in collina, con Antonio Ranieri, il mare, la mattina svegliandomi mi sembra il paradiso, uccelli che canticchiano, è giorno, è giorno guarda come è alto il sole, svegliati, vieni, c’è la luce, c’è la vita anche per te!

La notte il saluto me lo dà la luna, le stelle con leggera apparenza mi punteggiano lo sguardo, il vento mi narra le vicende degli alberi, questa natura la amo, la canto. Nessuno carezzò la luna quanto”.

Lo scritto finisce come spezzato. Ero solo. Afferrai, in tasca e via. A casa, vicino alla maschera di Giacomo Leopardi, fine, sensitiva, amorevole, pallida. Dunque: tutto finisce, l’essere è nulla, ma scegliamo di vivere grandi imprese, immergerci nella distrazione operante, comprensione, bellezza. Giacomo Leopardi è il più greco degli scrittori italiani, come poeta superiore ai tedeschi greci, come pensatore meno estremo ma non inferiore a Friedrich Nietzsche, che lo stimava pure come filologo, tranne nel periodo ultimo delle Caste. Leggere il Canto notturno. Il tramonto della luna è l’estremo lirismo pari al greco, al cinese del millennio avanti Cristo, della nipponica del XVI secolo.

Leopardi assume da Francesco Petrarca ma è più concettuale. Il Cantico del Gallo Silvestre (non sappia come mai esiste l’esistenza, non: si forma, ma “esiste”) ed Il Frammento di Stratone di Lampsaco (estrema distruzione e ricostruzione non identica al passato), nelle Operette morali raggiungono il pensiero vedico e di Esiodo. Lo Zibaldone è una cassaforte di pensieri. Come tutti i pensatori esistenziali grecizzanti era aforistico, frammentario, presocratico, quantunque amasse il dialogo. Si inoltrò nella problematica economica con la previsione sul “consumo” e la “cultura” di massa. Visse, Leopardi (1798-1837), la Restaurazione, che avversò edipicamente (il padre fu un coerente reazionario) ma intellettuale come era anelava le rivoluzioni, la nuova economia commerciale, il consumo, l’ho accennato, la crisi della cultura. Ebbe esistenza regressiva, miseretta, avventizia, privato di donne, quantunque si innamorasse.

È di certo, con l’Ecclesiaste, il massimo pensatore del nulla dell’essere. Ma l’Ecclesiaste (e Blaise Pascal) oppongono al Nulla Dio, Leopardi oppone al Nulla il riuscire a compiere imprese memorabili, non per sconfiggere il Nulla ma per occuparsi, agire, e non rappresentare l’uomo qualsiasi. Lo considero il pensatore più onesto e coraggioso. Nessun mitologismo fandonioso del genere: comunismo dei superuomini, di Karl Marx; eterno ritorno all’identico, di Nietzsche. Avevo gusto a continuare. Ma: da non credere. Lo scritto di Giacomo Leopardi non lo ritrovo.


di Antonio Saccà