Kant, la ragione messa in pratica ovvero critica della ragion pratica

mercoledì 13 luglio 2022


L’uomo non si limita a conoscere, meno che mai a contentarsi dei limiti della ragione, per quanto ossessionato dal mettere ordine, Immauel Kant freme, del resto aspira all’ordine, deve contenere l’apparato emotivo pertubabile. La “ragione” non giunge a conoscere Dio, il Mondo, l’Anima (l’Autocoscienza), e quel che conosce non è la realtà (cosa in sé) ma il fenomeno, ossia la realtà come ordinata, ammantata delle mie categorie? Non è da Kant fermare la ricerca, la “critica”. E si inoltra nell’ulteriore campo dove l’uomo scorrazza: l’agire. L’uomo non si limita a pensare, ma vuole attuare quanto conosce, praticarlo, rendere attiva la conoscenza. Dunque: Critica della ragion pratica.

E che propone la razionalità perché la pratica, l’agire siano razionali, precisamente: ispirati da una razionalità morale, come agire nei labirinti non illabirintandosi, tra bene e male (per Kant)? La morale, l’uomo razionale morale, la ragione che detta la morale ossia anche e necessariamente la libertà, nessuno potrebbe dirsi morale se agisse secondo comando altrui o per una morale suggerita da altri e non dalla propria ragione. Sembrano evidenze, invece da stare accorti, a proposito, giacché sorgono contraddizioni vulnerative, vedremo. E che dice a noi la ragione per renderci perfettamente morali? Innanzi tutto, decidi liberamente, autonomamente, di poi fatti suggerire dalla ragione, anzi: comandare, dalla ragione: “Tu devi”, ed eseguire imperativi, inevitabilmente categorici, quali, eccoli di seguito: Agisci secondo regole delle quali sei legislatore e suddito; agisci secondo regole che valgono per tutti, universali; valuta l’uomo non un tuo mezzo ma anche un tuo fine.

Pietà, dolore, impeto non si intromettano nella morale (per Kant), sono stati emotivi che un momento vibrano poi cessano. Da non fidarsi. Mai! Roccioso, ferreo, diritto, sull’attenti la morale di Kant non vuole “sentire”, il bene lo dobbiamo compiere perché la ragione lo scopre e lo indica, non perché uno stato emozionale (pietà, amore) lo scatena. A quell’epoca esisteva una concezione morale che attingeva al sentimento non alla ragione, del resto il Cristianesimo è radicalmente una morale dell’amore compassionevole, caritatevole, amore non ragione, o ragioni dell’amore (questione decisiva). Oltre la morale degli imperativi categorici, vi sono altri imperativi, ipotetici, vale a dire: per ottenere un fine devo approntare idonei mezzi, si tratta di azioni utilitaristiche, credo che “la ragione strumentale” di altri pensatori successivi a Kant si ispiri agli imperativi ipotetici: se vuoi ottenere un fine appronta i mezzi efficienti.

Kant resta inquieto, insoddisfatto, non ha potuto (saputo?) accertarsi dell’esistenza di Dio. Questione decisiva. Ed “inventa” un rimedio, problematicissimo, trae dalla ragione qualcosa che difficilmente possiamo considerare razionale, anzi addirittura potrebbe giustificare ogni trasporto “irrazionale”, le “ragioni del cuore” di Blaise Pascal sono da poco rispetto a ciò che sgorgherebbe dalla ragione (per Kant). Ossia: ripugna alla ragione che la morte chiuda i conti della vita e il buono e il mascalzone abbiano la stessa condizione, morti, e fine.

Mai! Ripugna alla razionalità umana (a Kant, ma Egli ritiene di rappresentare la “ragione” universale) questa conclusione pareggiata tra il buono e il gaglioffo, per il che la “ragione” pone apoditticamente non solo un’anima immortale ma un Dio che premia o castiga l’anima immortale. Sicché l’anima e Dio, sfuggiti, indimostrati dalla ragion pura diventano esigenze della ragion pratica, fondative dalla richiesta morale che gli uomini abbiano un aldilà dove il giudizio divino impedisce che il giusto che magari ha sofferto nel mondo abbia la stessa fine del rovinando che si è addirittura goduto l’esistenza. Dire che vi un capovolgimento della morale razionale è dire la verità. Kant immette nella “ragione” un principio devastante, “esigenze” fondative di comportamenti, basta affermare: è un’esigenza della ragione fare guerra, è facciamo la guerra, e tutto il resto per tutto il resto.

Ma come verificare se quella esigenza è razionale? È il dubbio rovinoso dell’intero edificio. Dire “ragione” significa la mia ragione o una ipotizzata razionalità universale della quale non abbiamo possibilità fondativa? Perché se esistesse una universalità morale io non sarei né libero né autonomo, “dovrei” riconoscerla. Se sono sottoposto al “tu devi”, io non sono né libero né autonomo. Se i tre imperativi sono categorici, io non sono né libero né autonomo. Ripeto, se li “devo” accettare per essere razionale questa razionalità l’ho stabilita io con la mia ragione? E se la “mia” ragione non li riconosce sarei irrazionale? È una questione antica quanto la filosofia (Sofisti, Socrate, Platone), le religioni nascono e sopravvivono anche o soprattutto per tale dilemma, l’impossibilità, se l’uomo suscita i valori, di stabilire valori universali.

La “mia” ragione non è la “ragione”, e dobbiamo alla ragione che intende universalizzarsi non meno prepotenze della irrazionalità che intende affermarsi. Se lasciamo all’uomo la libertà di fondare i valori non possiamo dirgli quali valori fondare in nome di una ragione che io non riconosco come la “mia” ragione. Se non riconosco una ragione universalistica impormela non è, non sarebbe razionale, anzi contraddizione. La Ragione (di chi?) annienterebbe la mia soggettività. Allora, fare ciò che si vuole? Fare ciò che riusciamo a fare secondo la nostra soggettività realizzata all’esterno, realizzabile. Un equilibrio dinamico, drammatico tra valori condivisi e soggettività. In Kant la soggettività è, sembra annientata dalla razionalità. Io voglio, io sento spazzati dall’Io devo (ne riparleremo, Friedrich Nietzsche, Esistenzialismo).

Il viaggio continua. Ultima razionalità sulla realtà, della realtà, le manifestazioni della Natura, anche la Natura è razionale, opera secondo fini, se la foglia nasce prima del frutto che poi difende dal vento, che significa? Che la foglia prevede il frutto, ha tale scopo prefissato. Certo, non è una finalità cosciente come nell’uomo ma è comunque finalizzata ossia razionale. E l’arte? Anche l’arte è manifestazione della ragione? Sicuro: un libero gioco della creatività, l’armonia delle parti, l’armonia, anch’essa attuazione razionale, ma allo scopo di suscitare piacere, una razionalità a scopi di godimento, il bello, la Grecia, l’armonia. Può anche esprimere grandiosità, sconquasso, terribilismo, una disarmonia voluta, un temporale, poniamo, raffigurato, e sia, ma io lo guardo tranquillo, la tempesta è nel quadro e resta incorniciata. Critica del giudizio.

Kant era emotivissimo, la minima alterazione della consuetudine lo travolgeva, allorché sostituì l’annoso domestico rimaneva stupefatto che una persona alla quale non era abituato stava nella sua casa. Decisamente aveva bisogno di raffrenare una sensibilità alterabilissima che cercava sicurezza nella abitudinarietà, tutto previsto, regolato. Non intendo forzare la biografia con l’opera. Affascinantissimo tema. Poniamo, intendere Friedrich Nietzsche, il quale invece di questi trapianti era indagatore, come soggetto che teme di essere travolto dal bisogno di amore, ed in effetti ne fu travolto, e si corazza di volontà di potenza. Sia chiaro, ciò non ha niente a che vedere con il valore oggettivo dell’opera, ma umanizza i rapporti con personalità che avremmo desiderato conoscere. Ma no, li conosciamo! Li frequentiamo Biograficandoli”.

Dobbiamo a Immanuel Kant l’avere associato alla libertà del volere il volere il valore dell’uomo. Non basta la libertà, occorre discutere sui fini della libertà. Potremmo essere liberi di svilirci. Soggetti, singoli, individui ma associati nella comune dote della razionalità che ci farebbe reperire valori uniconformi, anzi, valori che dobbiamo unire in valori conformi, il “tu devi e gli imperativi categorici, prolungati addirittura dalla esigenza che si realizza (un mistero!), l’ esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, capace di trovare piacere, godimento nell’armonia dell’arte, senza turbarsi del tragico (il sublime) Kant credeva di aver concepito la pozione del vivere sereno, un quasi greco, quasi, perché i greci erano tragici ed esprimevano la tragedia con forme limpide, che è tutt’altro della non tragedia.

Infine, inevitabilmente, anche la pace, in questo mondo serenamente razionale, e reso gradevole dall’arte, anche la pace, addirittura perpetua. E in tale circostanza Kant svolge la sua volontà di pace con una passionalità che nelle altre opere è frenata dall’analisi intellettuale. Vuole, sente, tenta di convincere, dimostrare, mostrare la necessità della pace, la guerra gli appare quella che è, distruzione mortifera, giunge persino a dichiarare che durante la guerra non dovremmo pervenire ad una situazione che impedisca una pace futura. Il politico, a Suo giudizio, non separi la politica dalla morale anche al prezzo di afflizioni immediate, laddove il politico che separa politica da morale avrà fortuna immediata, magari, ma non duratura. Kant si anima, accordi internazionali, rispetto, commerci, tutto tranne la guerra… È l’apogeo dell’Illuminismo universalistico, una umanità in accordo nella razionalità condivisa.

Si occupò anche di scienza, Kant, e condivise con Laplace, da Laplace, l’idea di una nebulosa primordiale da cui scaturisce l’universo. Visse a lungo, per l’epoca, ottanta anni. Si stancò di pensare alla fine, come Nietzsche, come Marx. Demenziò quietamente. Dispettosetto, anche. Si spazientiva se non gli recavano all’istante il caffè. Tutto questo come seme, cenno, brezza di oceani. Ogni argomento suscita una insurrezione di problemi. Comunque: Immanuel Kant! L’uomo come fine. Ed oggi, la fine dell’uomo? Il gran vantaggio di leggere tali personalità: credevano nell’uomo. La ragione, la pace, la pace, la ragione...


di Antonio Saccà