giovedì 9 giugno 2022
Storia & controstoria: un trait d’union
Al di là di persistenti esternazioni di sentimenti dissacratori e antirisorgimentali provenienti da varie parti, non v’è dubbio alcuno che l’epopea risorgimentale, tesa al conseguimento dell’indipendenza nazionale, si ponga – senza con ciò scadere in retoriche raffigurazioni – come il più grandioso evento rivoluzionario del XIX secolo. Ciò non toglie però – onde non cadere in mere celebrazioni trionfalistiche – che si rende necessario indagare sulle sue eventuali imperfezioni, sul continuum Risorgimento, post-Risorgimento e sul perché tante premesse di quel risultato in realtà non si siano poi concretizzate del tutto. Occorre dunque porre in atto il tentativo di un ripensamento storico-critico, in termini di proposizione di più accurate riflessioni e di riposizionamenti concettuali e logici rispetto ad interconnessioni e accadimenti fors’anche inaspettati, al fine di pervenire a più coerenti prospettazioni interpretative-reinterpretative rispetto a situazioni altrimenti inesplicabili.
Historia magistra vitae recita l’antica massima per affermare che il passato illumina il presente, talché, ove presa alla lettera, si scadrebbe nel determinismo e nella ripetitività dei fatti storici. In realtà la storia è un tunnel di cui non si vede la luce! Infatti, è anche il presente a schiarire il passato e a renderlo sempre più intellegibile, gettando su di esso nuova luce e fornendo continuamente nuovi elementi di valutazione. Insomma, un rapporto di interscambio conoscitivo e interpretativo nell’ambito di una corretta e rielaborata dialettica tra passato e presente su un invertito asse temporale. Una consecutio temporum non soltanto descrittiva ma soprattutto interpretativa per scoprire concatenazioni storicamente attendibili.
D’altra parte Historia non facit saltum! La Storia non è assimilabile ad un “sistema modulare” (Sybrick) in cui ogni “blocco” può essere estrapolato e diventare oggetto di analisi a sé stante al fine di costruire modelli sociologici centrati su astratte formulazioni atemporali e pretenziosi modelli strutturali e storicistici, ma è un susseguirsi di accadimenti organicamente interconnessi soprattutto nella dimensione temporale e causale, nella ricerca di motivi unificanti e di continuità piuttosto che di break. A voler svolgere un veloce excursus storico-critico sui percorsi risorgimentali e postrisorgimentali, a volte tortuosi e che non sono stati sempre del tutto idonei a completare l’effettiva unità della nazione italiana, è necessario propedeuticamente partire, dopo la disfatta dell’Impero napoleonico, dall’opera del Congresso di Vienna, in cui i grandi negoziatori si pongono l’obiettivo fondamentale di ristabilire, a vantaggio dei grandi Stati, la legittimità dei sovrani, utilizzando due principi: il primo di carattere giuridico-morale, l’altro, più pragmatico, dell’equilibrio europeo.
La conseguenza è – a voler guardare direttamente la situazione italiana – che l’Austria incamera nei Balcani le provincie illiriche di Napoleone (abitate da italiani e jugoslavi) e in Italia il regno del lombardo-veneto a Settentrione, mentre i piccoli ducati a sud del Po sono suoi vassalli; per il resto non si verificano sostanziali modifiche salvo che per il Regno di Sardegna, il quale viene ad essere fortificato dalla annessione di Genova e dalla riannessione della Savoia. L’Italia politica dunque, definita dal Metternich una semplice “espressione geografica”, non esiste ancora.
Tenuto conto di tutti gli altri rivolgimenti operati dal Congresso di Vienna, che comunque avrebbe assicurato la stabilità europea – così come concepita in termini di pura e semplice conservazione – per circa un altro secolo, la carta dell’Europa appariva quindi semplificata. Siffatta semplificazione, però, non teneva conto in alcun modo del nuovo principio introdotto nella Storia dalla così detta “Rivoluzione atlantica”, vale dire la duplice Rivoluzione americana e francese, cioè l’affermazione del principio delle nazionalità contrapposto a quello dinastico, sebbene in concreto in Europa, né prima né dopo, i confini politici siano venuti sempre a coincidere con i confini nazionali.
È dunque questa Europa – clericale e legittimista, aristocratica e reazionaria – il “terreno di coltura” in cui cominciano a maturare i germi cospirativi e insurrezionali, ovverosia i fermenti ideologici e culturali di carattere nazionale e liberale per un lungo seguito di rivoluzioni nel continente, che finiranno per avere riflessi anche sulle vicende risorgimentali italiane. È su questo magma culturale quindi, che sostanzialmente conserva dalla Rivoluzione francese le spinte all’autodeterminazione delle nazioni, che s’innestano in Europa le ondate rivoluzionarie del 1820 e del 1830, nonché, dopo la grande crisi economica del 1846-47 da cui traeva spunto, quella del 1848-49: questa, oltre alla Francia, alla Germania e alla stessa Austria, investe soprattutto l’Italia, dove più marcatamente rispecchia un carattere intellettuale, liberale-costituzionale e borghese, cioè più spiccatamente nazionale e tendente all’autogoverno e all’autodeterminazione.
In realtà sin dagli inizi degli anni Quaranta gli Stati italiani, stante il clima di lento sfaldamento del sistema uscito dal Congresso di Vienna, incominciano a coltivare un progetto di un qualche cosa in comune, che permettesse loro di far sentire una voce autorevole di fronte agli Stati europei, Austria compresa, in merito alle questioni di loro interesse. Così prende corpo il disegno della Lega Italica, che per il momento è limitata ad una alleanza generica e ad un’unione doganale, i cui più importanti Stati promotori sono il Regno di Sardegna (Re Carlo Alberto), il Granducato di Toscana (Granduca Leopoldo II), lo Stato della Chiesa e il Regno di Sicilia (Re Ferdinando II). Intanto, la situazione ai primi del ‘48 si aggrava nei confronti dell’Austria, giungendo al punto di rottura, tant’è che sarà il Re di Sardegna per primo a prendere le armi, non appena le tensioni nella vicina Lombardia avranno raggiunto l’acme. Infatti Carlo Alberto, in coincidenza con l’insurrezione di Milano e di Venezia contro l’Austria, si lancia nell’avventura bellica varcando il Ticino e impegnando direttamente l’esercito austriaco, reduce da Milano, nel Quadrilatero “Verona-Mantova-Peschiera-Legnago”; gli alleati toscani, romani e napoletani inviano corpi di spedizioni in aiuto.
Lungi dal voler ripercorrere le vicende della guerra, ciò che peraltro non rientra negli scopi della trattazione, giova soltanto evidenziare come il generale austriaco Radetzky, ricevuti gli adeguati rinforzi dall’Austria, sconfigge l’esercito piemontese, costringendo il Re Carlo Alberto ad un gravoso ripiegamento su tutta la linea e a riattraversare il Ticino. La guerra, ora definitivamente perduta, si concludeva con la firma dell’Armistizio di Salasco il 9 di agosto di quello stesso anno. Ma il Re, determinato a riprendere la guerra, denunciato l’armistizio che scadeva il 20 marzo 1949, dà avvio alle operazioni belliche, ma subirà la pesante e definitiva sconfitta di Novara, il successivo giorno 23, a causa della cecità politica degli altri sovrani centromeridionali e della intrinseca debolezza dell’esercito piemontese rispetto a quello austriaco.
Non vi è altro da fare per il disperato Re che abdicare e affidare al primogenito l’incerto avvenire mentre si assiste all’agonia di tutta la fase rivoluzionaria europea. Ed è proprio in questo contesto che in Italia incomincia a maturare l’idea che, fallite le esperienze rivoluzionarie repubblicane, l’unificazione non avrebbe potuto realizzarsi secondo il progetto democratico-mazziniano ma, passando definitivamente nelle mani della classe dirigente liberale-moderata e di fede monarchica, concretizzarsi con il Regno di Sardegna – il cui Re Vittorio Emanuele II si presentava appunto come l’ultimo baluardo della moderazione – e con l’aiuto di potenze straniere, in particolare della Francia.
La seconda fase del Risorgimento, quindi, realistica e spregiudicata in politica estera, inizia con la preparazione “cavuriana” del decennio 1849-1859 per concludersi poi a Teano nel 1861, con la proclamazione, il 17 marzo, del Regno d’Italia – con il beneplacito dell’Inghilterra in funzione antifrancese e antirussa – “transitando” per i Patti di Plombières nel luglio del 1958, intercorsi con quel personaggio misterioso e ambizioso, collaterale di Napoleone Bonaparte e che si indusse a chiamarsi Napoleone III (in quanto più nulla si sapeva del secondo, il figlio di Napoleone e di Maria Luisa), e ancor prima attraverso la “gratuita” partecipazione francese e l’invio del corpo di spedizione piemontese nel 1854-1855 alla guerra di Crimea; infatti, scoppiata la guerra tra Russia e Turchia, se l’Inghilterra partecipa per salvaguardare i propri interessi in oriente, la Francia, che la segue passo passo, ne fa solo una questione di prestigio, pur in armonia con una sua politica estera.
Occorrerà dunque un altro decennio e la paziente opera del “Grande Tessitore”, Camillo Benso di Cavour, il quale, mandando un piccolo esercito nella Crimea, viene ammesso nel grande “concerto europeo”, dove può approfittare per porre sul tappeto la “questione italiana” con disappunto dell’Austria: Cavour, infatti, è l’altro grande vincitore a Parigi, unitamente all’Inghilterra, che, eliminando la Russia dai Balcani, viene garantita per la chiusura degli stretti alla flotta russa, ottenendo altresì la neutralizzazione del Mar Nero. L’opera si conclude con l’annessione al Regno della sola Lombardia dopo la Seconda guerra d’indipendenza nel 1859, sostanzialmente combattuta e vinta dai francesi di Napoleone III a Solferino, sebbene con il consistente apporto dell’esercito piemontese nelle battaglie di Magenta e San Martino – quest’ultima con la presenza personale di Re Vittorio Emanuele – e con la prospettiva di una ulteriore avanzata dei piemontesi verso Peschiera. Ma l’11 luglio il colpo di scena! I due imperatori Napoleone III e Francesco Giuseppe, ignorando “il terzo incomodo” piemontese, concludono a Villafranca non un armistizio bensì dei veri e propri preliminari di pace.
In realtà la Francia, che aveva assicurato di combattere per la libertà italiana e che mirava a sostituirsi all’Austria nel dominio della Penisola, ora si accontentava di una spartizione delle zone di influenza: altro che volontà di Napoleone di impedire ulteriori spargimenti di sangue, la verità invece era altra! La parte principale dell’accordo prevedeva che l’Austria conservasse le province venete, più Mantova e Peschiera, e cedesse la restante Lombardia a Napoleone III, con l’intesa che questi la “girasse” – come una cambiale! – al Regno di Sardegna; il tutto, peraltro, con la cessione, dei territori di Nizza e Savoia alla Francia. Tutto ciò, comunque, darà la stura, l’anno successivo, all’impresa garibaldina della conquista del Regno di Napoli – con il placet dell’Inghilterra, che aveva in animo di distruggere quel regno posto al centro del Mediterraneo – propedeutica alla proclamazione, il 17 marzo del 1861, del Regno d’Italia, anche se ancora senza il Veneto e Roma.
Insomma, a parte la delusione per la defezione di Napoleone III con la sottoscrizione degli accordi di Villafranca, l’unificazione dell’Italia – e qui sta il grande “cruccio” storico, l’altra “distonia” nel processo di formazione della nazione – avveniva non proprio militarmente, ma, nonostante gli sforzi profusi dal piccolo Regno di Sardegna, da un lato grazie a Napoleone III, alla costante ricerca di prestigio internazionale, dall’altro grazie anche all’opera di Gladstone e dei liberali inglesi. Ma delusioni più cocenti dovranno ancora arrivare un quinquennio più tardi! Il Veneto, dunque, mancava ancora al giovane regno italiano, quel Veneto che, a causa del “tradimento” francese con la firma degli accordi di Villafranca, sarebbe stato oggetto di manovre diplomatiche e politiche ancora più macchinose di quelle messe in atto per la preparazione della Seconda guerra d’indipendenza; la conseguenza di tali azioni è ora la convergenza degli interessi dell’Italia con quelli di Bismarck, l’autoritario cancelliere prussiano, fautore di una forte politica espansionistica del Reich, principalmente in funzione antiaustriaca e antifrancese, che porterà nel maggio del 1871 all’unificazione della nazione tedesca e alla proclamazione dell’impero.
La Terza guerra d’indipendenza porta sì all’annessione del Veneto, ma solo grazie alla sconfitta dell’Impero asburgico a opera della Prussia di Bismarck – a cui l’Italia si era alleata – a seguito della schiacciante vittoria di Sadowa nel luglio 1866, colta dal formidabile esercito prussiano guidato da von Moltke: tutto ciò, mentre le armi italiane subivano, ad opera degli austriaci, le umilianti sconfitte di Lissa per mare e di Custoza per terra; cosicché, almeno in una prospettiva nazionale, la guerra doveva considerarsi fallimentare sia per i gravi insuccessi militari sia per il fatto che rimanevano fuori dal regno – e questo sarà un altro passaggio chiave – altri territori, come il Trentino e l’Istria, popolati da numerosissimi italiani. Insomma, nella sua prima prova bellica il nuovo Stato unitario non aveva fornito una buona prova di sé, sebbene Custoza non fosse stata una grande battaglia e, dopo Lissa, la flotta italiana era ancora superiore a quella austriaca.
Anche la conquista di Roma e l’annessione del Lazio al Regno d’Italia nel 1870 – con la presa di Porta Pia il 20 settembre a opera dei bersaglieri – sono determinati da successi altrui, questa volta a spese della Francia, sconfitta dalla Prussia il 2 settembre a Sedan, la quale, con il crollo dell’impero di Napoleone III, non era più in grado di proteggere militarmente lo Stato pontificio. Ancora una volta, pertanto, un grande obiettivo connesso alla unificazione del Paese, vale a dire lo smantellamento del potere temporale della Chiesa e la sua incorporazione nella monarchia Sabauda, sopraggiungeva purtroppo non per l’effetto di vittorie militari proprie, bensì come conseguenza della sconfitta dell’imperatore francese, in aiuto al quale, peraltro, Vittorio Emanuele II sarebbe dovuto accorrere proprio in virtù dell’aiuto dato al Piemonte nel 1859.
In conseguenza, negli anni successivi, proprio per come si era concluso il processo di unificazione nella consapevolezza dei tanti insuccessi, al di là dei molti episodi di valore, che avevano costellato tutto il periodo risorgimentale, incomincia a serpeggiare una diffusa sensazione di malessere spirituale, una sorta di “complesso di inferiorità”, un senso di frustrazione generale, che, sfociando gradualmente in aneliti di rivincita e di espansione territoriali e ingenerando la sensazione che l’Italia dopo il 1870 fosse in qualche modo ancora incompiuta, slitta insensibilmente in quelle che incominciano a delinearsi come aspirazioni irredentistiche. Queste, dapprima di matrice di sinistra, e quindi di fonte repubblicane e democratico-mazziniane e all’inizio dirette contro l’Austria con l’obiettivo della liberazione del Trentino e della Venezia Giulia – trapassando gradatamente in un movimento ispirato ad una generale volontà di potenza e ad inclinazione nazionalistica e colonialistica – perverranno poi a progetti politici e strategici di ben più ampio respiro: tutto ciò, peraltro, senza aver prima risolto i gravissimi problemi che affliggevano – e non solo da quel momento – il Paese, in particolar modo il Sud della Penisola, ciò che avrebbe posto sin da allora gravi incognite sul futuro sviluppo della vita nazionale.
A ben vedere, in effetti, nel 1870 non ancora poteva dirsi conseguito l’obiettivo principale del Risorgimento, vale a dire la più completa unificazione di tutto il suo territorio nazionale e non v’è dubbio che nel tempo nazioni ben più forti, vale a dire le monarchie di Francia, Inghilterra e Spagna, avessero posto in atto una lenta erosione delle regioni italiane di confine: la Corsica sin dal 1768, Venezia e la Dalmazia nel 1797, Malta nel 1814, Nizza e Savoia nel marzo 1860.
Insomma, nel corso del tempo, i confini dell’Italia-nazione – ma non ancora Stato – si erano via via ristretti a seguito della perdita di territori italiani per lingua, storia e civiltà, cosicché era venuto a crearsi uno iato tra i veri confini italiani e quelli del Regno d’Italia – come entità politica – dopo il 1861 e il 1866, ma anche dopo il 1870: tutto ciò veniva quindi a collidere con il concetto di nazione così come affermatosi nelle ideologie politiche ottocentesche, sia nella versione tedesca, in una visione di unità culturale e linguistica, sia in quella francese, a caratteri per lo più volontaristici.
Non vi è dubbio, dunque, che l’l’irredentismo italiano, che ha la sua matrice ideale nel sentimento di incompletezza e di delusione che si diffonde dopo il 1870, trovi fondamento – soprattutto dopo l’avvento della sinistra al potere, dal 1876, imbevuta dell’idea mazziniana del primato che spettava all’Italia in Europa – in una sorta di implicito accordo tra le istanze monarchico-liberali e le sempre più pressanti spinte repubblicane e democratico-mazziniane. In definitiva, l’accettazione della Monarchia finisce per passare, così sottintendendola, attraverso la sua capacità di saper guidare una riscossa nazionale onde consentire al nuovo Stato unitario di occupare nel contesto europeo e mondiale il posto di rilievo che le competeva e che i miti e le aspirazioni risorgimentali – al di là del sotterraneo risentimento verso il Governo del nuovo Stato per le deludenti prove finora fornite – avevano ingenerato nell’opinione pubblica, quanto meno in quella più impegnata.
Insomma, un tacito accordo contenente una univoca riserva politica, affinché la Monarchia, mostrandosi all’altezza del suo ruolo storico, potesse completare l’opera del Risorgimento sotto vari aspetti, da quello culturale, sociale ed economico alla soluzione della “Questione Romana”, dalla capacità di colmare il divario tra il Nord e il Sud a quello di dare all’Italia quel ruolo di prestigio nell’ambito europeo che le spettava per la sua riconosciuta e indiscussa “missione” nel mondo. La Monarchia e la nuova classe dirigente nel Paese vengono così a trovarsi nella condizione di dover contrastare un diffusa e inquietante situazione, nei loro confronti, di inadeguatezza, ciò che poi si traduce in un ondeggiare della politica estera italiana tra una tendenza a rinchiudersi in se stessa, senza eccessive complicazioni diplomatiche e militari onde avviare a soluzione i problemi interni, e una certa ambizione a proporsi ora come grande potenza europea: le fluttuazioni tra queste due “anime” sono interpretate rispettivamente dagli uomini della Destra, in quanto consapevoli dei limiti del nuovo Stato, e da quelli della Sinistra, eredi di Mazzini e Garibaldi, per di più ora anche “pericolosamente” attratti dalla politica di potenza di Bismarck.
La politica della prudenza e della cautela, di cui la Destra è paladino, si conclude definitivamente con lo smacco italiano al Congresso di Berlino nel luglio 1878 – che la Russia è costretta ad accettare, come revisione del Trattato di Santo Stefano del marzo dello stesso anno, con cui era stata creata, a spese della Turchia, una “Grande Bulgaria” posta sotto l’influenza russa – in cui l’Italia è l’unica nazione nel contesto europeo a non ottenere alcunché. In conseguenza, alla diffusa sensazione di incompiutezza, si aggiunge quindi anche la delusione per l’insuccesso in tale Congresso, da cui l’Italia esce con “le mani nette”, e ancora di più per “l’affare” di Tunisi nel 1881, allorquando la Francia, precedendo un’analoga iniziativa italiana, conquista la Tunisia, su cui l’Italia aveva pure delle mire, imponendovi il suo protettorato.
Tramontata ora definitivamente la linea politica della prudenza in campo internazionale, benché il tacito accordo con la Monarchia si basasse sulla soluzione di svariate problematiche, alla fine la scorciatoia dapprima irredentistica e poi colonialistico-imperialistica diventa il trait d’union tra la nuova borghesia, ormai “smaniosa” di esibirsi in politica estera, e la Monarchia, nonché la scappatoia – ossia l’alibi – per eludere la soluzione dei gravissimi problemi che attanagliavano il nuovo Stato unitario. Cosicché, il colonialismo verso l’Africa sarebbe finito per diventare, a seguito della stipulazione della Triplice alleanza con la Germania e l’Austria nel 1882, un sostituto dell’irredentismo, tant’è che soltanto tre anni dopo verrà avviata una politica di espansione nel Mar Rosso e in Etiopia.
Insomma, l’apertura del capitolo delle guerre d’Africa nel 1885 non può considerarsi casuale, in quanto, “congelata” nel 1882 la questione irredentistica, diretta fino a quel momento soprattutto nei confronti dell’Austria, riprende vigore la tendenza coloniale e africanista della nostra politica estera, consentendo così anche all’Italia di avviarsi, quantunque ultima tra le grandi potenze europee, a prendere parte attiva alla gara dell’imperialismo. Ciò era da collegare pure al fatto cha a partire da quegli anni l’Austria incomincia ad apparire come un più che valido contro bilanciamento all’espansionismo russo e anche come possibile alleata in funzione antifrancese nonché come collante di quei piccoli popoli dell’Europa centro-orientale e balcanica.
In conclusione, bloccato l’irredentismo per l’adesione dell’Italia alla Triplice, dando fiato alle aspirazioni della nuova e avventurosa classe dirigente e alla larga fetta di opinione pubblica ora favorevole ad una politica di potenza e facendo passare in secondo piano tutti i nodi irrisolti dell’arretratezza del Paese, prende corpo il fenomeno del colonialismo di fine Ottocento, che, in tal modo, finisce per diventare del tutto intercambiabile con l’irredentismo.
Venendo ora a tratteggiare, seppur succintamente, le tappe dell’espansione coloniale italiana, partita dalla colonia Eritrea acquistata nel 1882 e iniziata tre anni dopo, anche questa è destinata ad aggiungere ulteriori delusioni e profondo senso di frustrazione. Già nel gennaio del 1887, il massacro dei cinquecento uomini del tenente colonnello De Cristoforis a Dogali ad opera di preponderanti forze di Ras Alula, vicenda che porta al governo del Paese “l’uomo forte” Francesco Crispi succeduto a Depretis. Dopo la denuncia unilaterale, nel maggio del 1893, del Trattato di Uccialli del 1889 da parte di Menelik e i parziali successi italiani di Agordat, Cassala, Senafè e Adigrat negli anni 1894-95, la carneficina, il 7 dicembre 1995, dei duemilatrecentocinquanta uomini del maggiore Toselli al passo dell’Amba Alagi per mano di trentamila etiopi al comando del ras Makonnen. Ma il peggio dovrà ancora arrivare nel mese di marzo dell’anno successivo, con il disastro di Adua, per mano del negus Menelik rifornito di armi dalla Francia, dove avrebbero trovato la morte cinquemila italiani oltre ad un migliaio di ascari e millecinquecento feriti.
La terribile sconfitta di Adua era stata, senza alcun dubbio, solo frutto di imperizia, impreparazione e approssimazione, oltre che di cecità politica: si pensi che le tre colonne dirette su Adua (Generali Dabormida, Arimondi, Albertoni), in complesso diciassettemila uomini oltre ad artiglierie varie, erano dotate di carte topografiche del territorio etiopico del tutto erronee, tant’è che le Brigate Albertone e Dabormida non riuscivano ad un certo punto a ricongiungersi, così come avrebbero dovuto: quest’ultima, avanzando in direzione completamente sbagliata, finirà nel fondo di un vallone e, attaccata dall’alto dagli Scioani, questo diventerà la sua tomba.
Quella sconfitta, che sarebbe costata all’Italia più morti di quanti se ne fossero avuti nelle guerre d’indipendenza, avrebbe portato all’uscita dalla scena politica di Crispi e al momentaneo accantonamento di velleità colonialistiche-imperialistiche. Venivano altresì occultate le gravissime responsabilità politico-militari che avevano determinato il fallimento delle imprese coloniali in Africa; infatti, il generale Baratieri veniva sì assolto dal Tribunale di guerra, riunitosi nel giugno del ‘96, da responsabilità penali ma con una pesante deplorazione dell’esercizio del suo comando.
Persino la successiva guerra italo-turca nel 1911, che avrebbe sì consentito la conquista della Libia, limitatamente però alle sole città costiere, avrebbe rivelato impreparazione militare, conducendo a gravi insuccessi, come il massacro di due compagnie di bersaglieri a Sciara Sciat, nel mese di ottobre di quell’anno, ad opera dei turchi, come pure sarebbero occorsi enormi sforzi per fronteggiare un nuovo attacco, nello stesso mese a Bu Meliana e spingersi fino a Bir Tobras. Soltanto nel maggio del 1912 verrà vinta la resistenza a Homs e solo a settembre le truppe italiane riusciranno ad occupare Zuara. In realtà, la completa sottomissione della Libia sarebbe avvenuta sotto il fascismo soltanto tra il 1924 e il 1930, con la completa occupazione delle zone interne.
Più che sulle vicende belliche relative alle guerre d’indipendenza e a quelle coloniali, si è inteso indagare più a fondo sul mix motivazionale che collega il Risorgimento al post-Risorgimento, che, come innanzi evidenziato, traeva origine da una diffusa sensazione di incompiutezza dell’Italia e da una sorta di malessere e di delusione nei confronti dello Stato unitario postrisorgimentale: un assieme composito di rivendicazioni e aspirazioni, in cui, a ridosso della Prima guerra mondiale, verrà nuovamente ricompatto anche l’irredentismo, solo temporaneamente congelato nel 1882, in un unico filone tutt’assieme “irredentistico-nazionalistico-colonialistico-imperialistico”, che era proprio di una grande potenza od almeno aspirante tale, ciò che caratterizzerà soprattutto l’azione mussoliniana sia per la conquista etiopica nel 1935-36 sia per l’entrata in guerra nel giugno del ‘40.
Ma avendo già ampiamente trattato di siffatte questioni di recente proprio dalle colonne di questo giornale in “Grande guerra e identità nazionale”, qui giova soltanto svolgere qualche ulteriore riflessione su vari parallelismi e alcune singolari analogie con taluni fatti storici successivi, senza con questo voler pervenire ad affrettate conclusioni e con tutti i distinguo del caso.
Non può sfuggire, sotto un primo aspetto, la straordinaria analogia che può cogliersi tra la sensazione di un’Italia incompiuta dopo il 1870 e quella generata dal mito della “vittoria mutilata” dopo il 1918. In entrambi i casi, infatti, un imperante senso di frustrazione e di insicurezza e una confusa impressione di delusione e di insuccesso, portano ad avvenimenti la cui similitudine non può lasciare indifferenti ed essere liquidata come una curiosa coincidenza, salvo che non si voglia tralasciare l’approfondimento di alcuni aspetti che solo concettualmente, se non proprio solo ideologicamente, non riescono a convincerci del tutto.
Indiscutibilmente, se gli anni 1866-70 non producono qualcosa che possa identificarsi culturalmente e socialmente con il fascismo, pur tuttavia generano l’autoritarismo crispino, con le sue tentazioni extraparlamentari e con una sua facciata di potenza, che si traduceva in una politica estera alquanto energica tesa a fortificare l’unità nazionale e in vigoroso anelito colonialista: tutto questo, in fondo, non può non considerarsi se non come una anticipazione della politica di potenza – dopo quella che aveva già caratterizzato la Prima guerra mondiale – che sarà attuata da Mussolini alcuni decenni più tardi. Questa, infatti, dopo l’impresa etiopica e la proclamazione dell’Impero, culminerà, proprio a ridosso dell’intervento in guerra a fianco della Germania nazista nel giugno del 1940, nella collocazione delle rivendicazioni territoriali italiane (Malta e Corsica, Gibilterra e Mediterraneo, Gibuti e Suez) sul già irto tappeto internazionale, rivendicazioni coincidenti in larga parte con quelle che l’irredentismo, nella sua evoluzione storica e con il suo approdo alle tesi imperialistiche, aveva a suo tempo già fatto proprie.
Come ulteriore riflessione storica, neppure non può sfuggire, in merito alla questione delle alleanze, come tematica che va a connettersi anche a quella coloniale, che sono sempre le conseguenze della politica africana a portare l’Italia ad allearsi con la Germania: così nel 1882, con l’adesione alla Triplice alleanza, dopo l’insuccesso nel 1881 per la Tunisia che veniva ad inasprire i rapporti con la Francia; così pure la conquista dell’Etiopia nel 1936, che, esacerbando i rapporti con Francia e Gran Bretagna, avrebbe finito per gettare Mussolini nelle braccia di Hitler con gli accordi nel 1939.
Insomma, in un modo o nell’altro, il colonialismo italiano verso l’Africa è venuto quasi sempre a collidere fortemente con gli interessi franco-inglesi, così come del resto accaduto anche nella guerra etiopica del 1894-96 e in quella di Libia del 1911, e ogni volta doveva essere l’alleanza con la Germania a fare da scudo protettivo contro la reazione francese e inglese. Una sostanziale continuità, quindi, che – pur con tutti i limiti e gli opportuni distinguo – non può non colpire per le molteplici similitudini che si evidenziano, nonostante la storiografia così detta “democratica” dopo il 1945 si ostini a negarle, respingendole con sdegno solo per motivi ideologici. In conclusione, dunque, la messa in campo di più pregnanti fattori deduttivi nel sofferto processo unitario, post-unitario per tentare di offrire non tanto risposte quanto vari motivi di riflessione in più.
di Francesco Giannubilo