“Il filo di mezzogiorno”: Freud nell’angolo

martedì 31 maggio 2022


“Non andare fra le viti nel filo di Mezzogiorno”. Così scrive più di cinquanta anni fa Goliarda Sapienza (nome straordinario per una donna unica del suo tempo!), nel suo bello e angosciante romanzo autobiografico Il Filo di mezzogiorno, pubblicato da Garzanti nel 1969 (e recentemente ripubblicato per La Nave di Teseo), in cui tutta la giovane psicanalisi italiana freudiana incontra la sua mina vagante, che ne terremota non poche certezze psicoterapeutiche. Nella relazione biodinamica “paziente-terapeuta” tra Goliarda e il suo psicanalista, Ignazio Majore, la scena del setting immaginata da Mario Martone nel suo spettacolo dal titolo omonimo (in scena al Teatro Argentina fino al 5 giugno) funziona come una sorta di schema rovesciato alla Ladyhawke, in cui la parte della personalità di Goliarda è separata in due metà psico-comportamentali nettamente separate.

Quella della notte e del buio, in cui la donna falco si tramuta nell’uccello fantasma della sua persona, immersa negli incubi notturni e nelle visioni angoscianti di un vissuto persecutorio, denso e vischioso come la bava velenosa di una pianta carnivora, in cui gli insetti sono i sogni che mordono e il loro volo che si interseca, come tante aerovie impazzite, tesse la ragnatela dei pensieri bui. L’altro, invece, è il divano di una casa privata, quella di Goliarda, in cui si incontrano sempre alla stessa ora, mezzogiorno, il terapeuta e la sua paziente geniale, iniziando da subito un incredibile braccio di ferro su “Chi salverà Chi?”.

Ignazio che tiene, da un lato, disperatamente fede alla sua missione professionale, tentando di mantenere il timone tradizionale dei colloqui per far uscire Goliarda dalla sua isteria, recuperando così alla sua memoria quanto più possibile le cose rimosse e congelate in qualche recesso apparentemente inaccessibile della mente della paziente, anche a causa dei danni terribili da lei subiti nel trattamento da elettroshock quando era ricoverata in una clinica psichiatrica. Come buffi orsetti ammaestrati, che danzano al ritmo di un invisibile piffero magico impugnato con raffinatezza linguistica dall’analista, riaffiorano come scomodi ologrammi i rapporti della figlia Goliarda con una madre psicotica, alla quale è riuscita strappare con le unghie e con i denti, ferendosi però in maniera grave e con cicatrici mai veramente rimarginate, il consenso per continuare gli studi all’Accademia di arte drammatica, in cui sua figlia aveva ottenuto una borsa di studio, che consentiva alle due di mantenersi all’interno di una vita di sacrifici e di stenti.

Poi, i ricordi dell’infanzia di un fascismo persecutorio e violento, con i suoi gerarchi e miliziani prepotenti; la scelta di schierarsi con la ribellione partigiana, sfidando così l’imprigionamento e la tortura nelle prigioni fasciste. Così come incombono gli amori, gli uomini, il fratello che l’avevano aiutata, amata, salvata. La prima vera operazione di salvataggio riesce per primo all’analista, che farà il miracolo di riprendere con un retino invisibile tutti quegli insetti volanti, quelle stupende farfalle multicolori che sono le composizioni poetiche e le migliaia di pagine scritte da Goliarda, completamente dimenticate nei cassetti e negli archivi della sua casa, per ricollocarli nell’unica arnia mentale che li aveva molto tempo prima partoriti. Miele e propoli delle parole, per ricostruire, tonificare una personalità in frammenti. Ignazio che, come un sarto provetto, afferra al volo quei tessuti simbolici che lei si strappa dalla sua carne viva, per lanciarli nel setting e avvolgerglieli attorno alle labbra come tanti bavagli, con l’intento di punirne le parole che destrutturavano il suo monolite narcisista. Quei frammenti di stoffa che, ricuciti attorno al corpo di un Re Nudo, come appariva agli occhi del distaccato Ignazio la personalità disturbata e geniale di Goliarda, ricreano finalmente in lei un rapporto più sano, compensato con il reale.

I coltelli lanciati al bersaglio grande dalla paziente verso il corpo immateriale dell’analista, vengono afferrati da lui, privati del filo della lama che uccide e rinfoderati, mostrando a lei che la sua aggressività è solo un modo per non fare i conti con se stessa.

Ma, a un certo punto, il controtransfert incontra la mina più inaspettata e devastante, a seguito dell’aperta e coraggiosa confessione di Goliarda di essersi innamorata del suo analista. Il setting funziona, infatti, finché le carezze che lei si aspetta da lui restano puramente mentalizzate, quindi, prive di una corrispondenza materica esatta, data dalla fisicità della mano che concretamente accarezza, sfiora, tocca viso e corpo, e sono prontamente rinviate al mittente e neutralizzate dal prosieguo dall’analisi.

Ma quando, invece, la mina vagante incontra lo scoglio fragile della personalità non più monolitica di lui, ormai non in grado di resistere a quell’urto d’amore incontenibile, allora tutto frana e i frammenti non sono più ricomponibili. L’analista deve fuggire e abbandonare lo spazio–tempo di quella parte della stanza di Goliarda, lasciandola sola a fronteggiare i suoi fantasmi. Ma lo straordinario accade: quel sacrificio di Ignazio perdente, divorato da quel femminismo così esuberante e prepotente, alla fine darà il risultato atteso: Goliarda tornerà alla vita trovando apparentemente da sola l’uscita e la via di salvezza attraverso il suicidio della sua personalità disturbata. Vivissimi complimenti ai due bravi, infaticabili protagonisti: Donatella Finocchiaro (Goliarda) e Roberto De Francesco (Ignazio) e naturalmente, al regista Mario Martone e a chi, come Ippolita di Majo ha saputo sostenerlo nella scrittura di testi non proprio facilissimi da comunicare.


di Maurizio Bonanni