“Un figlio”: l’occhio del diavolo

giovedì 14 aprile 2022


Come ci vede il Diavolo? Benissimo, esattamente come la Sfortuna. E quando la perfida coppia del Destino si allea, allora l’impensabile diventa realtà. Nel bellissimo film Un figlio (in uscita nelle sale italiane dal 21 aprile) del regista tunisino Mehdi M. Barsaoui, con Sami Bouajila (Fares) e Najla ben Abdalla (Meriem), il Diavolo gioca alla guerra tra terroristi e polizia, nell’estate dell’anno della Rivoluzione dei gelsomini tunisina del gennaio 2011, mentre la Sfortuna guida un proiettile vacante all’interno dell’abitacolo di un suv di una famiglia borghese benestante, che tornava da un breve e felice periodo di vacanza, ferendo in modo grave il loro unico figlio di undici anni, Aziz. Colpito al fegato, l’unica speranza di salvezza per il bambino è il trapianto dell’organo, prelevandolo parzialmente tra i suoi più stretti consanguinei, purché compatibile con il gruppo sanguigno del bambino.

Tutto facile? Niente affatto. Tra quelle tre creature dolenti, sconvolte da quell’evento imprevisto, si inseriscono ben due complessi elementi esogeni: la Sharia da un lato e la lunga attesa di un fegato compatibile per un trapianto. La prima, con le sue regole ferree, che puniscono con pene che vanno fino all’esecuzione capitale l’adulterio e i figli nati fuori dal matrimonio da donne non sposate, i quali non hanno nemmeno diritto all’identità che non può venire loro garantita in assenza di un riconoscimento ufficiale di paternità.

L’altro, il circuito dei donatori, costituito da una ristretta cuspide di espianti legali, alla quale fa da sfondo un sommerso enorme, gigantesco, dove nuotano pescecani e avventurieri di ogni risma, spietati e senza pietà, che non si fanno scrupolo di tenere prigioniera l’infanzia sfortunata e abbandonata (soprattutto in territori di guerra nel terzo mondo e in alcune regioni dell’Africa mediterranea, come la Libia dei profughi maltrattati), per farne una sorta di “fattoria degli organi” da cui prendere tutti i.. ricambi che servono, purché i recipienti siano in grado di pagarli in denaro contante e in nero.

E, ovviamente, accanto a questi orrendi negrieri, coabitano piccole strutture ospedaliere e cliniche clandestine in cui operano medici e infermieri compiacenti, che non si fanno troppe domande e scrupoli sulla provenienza degli organi, preoccupandosi esclusivamente dei loro lauti guadagni per ogni singolo intervento illegale. Come queste due componenti del destino interagiscano magistralmente tra di loro rappresenta la grande qualità del film, e il prezioso meccanismo della relativa narrazione va accuratamente protetto per non togliere nulla al pathos che lo contraddistingue.

Il film di Barsaoui è, soprattutto, una delicata storia d’amore, all’interno di un dramma terribilmente divisivo, di una coppia evoluta e progressista, in una Tunisia islamica (che vedrà la nascita dell’Ennahda, un Partito islamico moderato, maggioritario nel Parlamento democratico nato dopo la sconfitta della dittatura), in cui la pratica della fede religiosa è presente in tutti i momenti della vita, persino nelle sale d’attesa di un ospedale e, soprattutto, nelle invocazioni ad Allah laddove il dolore e i drammi familiari fanno da sfondo e da sale della vita vissuta.

Ad attutire il conflitto profondo e non si sa quanto sanabile di coppia, in perenne apprensione accanto al letto di Aziz, si muove un delicato, umanissimo apparato sanitario con suoi medici, primari e personale infermieristico che seguono con grande tatto e discrezione vicende che si susseguono con incalzante drammaticità, senza che mai altri attori esterni, e tantomeno le autorità di settore, vengano coinvolte nella vicenda. Ecco, forse il principale suggerimento (insegnamento) è proprio questo: far prevalere la sensibilità e l’empatia, piuttosto che la più becera burocrazia che riduce tutti i rapporti umani a carte senza dolore e pena, in cui un’autorizzazione data o negata fa la differenza tra la vita e la morte.


di Maurizio Bonanni