Il male non esiste: la corda e l’impiccato

venerdì 4 marzo 2022


La banalità del Male” abita in Iran, come la Corda e l’Impiccato. Orso d’oro 2020, il film “Il Male non esiste” (in uscita nelle sale italiane il 10 marzo), per la regia dell’iraniano Mohammad Rasoulof, ritaglia quattro storie tenute assieme da un comune filo conduttore, ovvero “Chi e come somministra la condanna capitale”, quando lo Stato è islamico e la giurisdizione del processo deriva dalla Sharia e non dal Diritto positivo all’occidentale? Il film prende in considerazione direttamente lo status degli esecutori materiali della pena, che possono indossare la divisa o abiti civili. Ci si chiederà: “cambia qualcosa, nell’uno come nell’altro caso”? Sì: perché la divisa prevede una condizione mandatory, legata in qualche modo all’obbligatorietà della mansione che è ricompresa nell’ambito del dovere militare. La seconda, invece, attiene al classico rapporto di dipendenza funzionale del boia con il potere amministrativo-giudiziario locale/nazionale. Un lavoro da... burocrate, cioè, come un altro. Però, nulla è più perverso della burocrazia della Morte, in cui in apparenza il funzionario non si chiede mai se l’ordine sia giusto, preoccupandosi esclusivamente che il suo compito sia scrupolosamente eseguito.

Il regista, in quest’ultimo caso, si pone una giusta domanda, ovvero: “questo tipo di... impiego pubblico è, o no, senza conseguenze per colui che lo esercita con scrupolo e senso del dovere”? La sua risposta (come verosimilmente lo sarebbe la nostra!) non può che essere affermativa, narrandoci dei fattori di stress e degli incubi notturni del boia che vanno a incidere ben oltre le porte blindate del carcere di massima sicurezza. E che cosa accade, invece, quando l’esecutore ha un obbligo gerarchico da rispettare, pena dure sanzioni sulla sua vita militare che si prolungheranno molto negativamente anche sulla sua condotta da civile una volta congedato, limitandone severamente alcune libertà di movimento e di concessione di autorizzazioni amministrative? In merito Rasoulof torna a chiedersi: è possibile ribellarsi a tutto questo, sviluppando una forte empatia con il condannato a morte, fino a stare veramente male sapendo di dover eseguire un ordine ritenuto ingiusto? E qui, la risposta si fa molto più sfumata, mentre si parla in immagini del... prezzo da pagare, con i pro e i contro che si accavallano come una treccia in chiaroscuro, composta dai fili bianchi del Bene e da quelli neri del Male.

Perché, in fondo, ribellarsi vuol dire rimettere gioco tutto, ma proprio tutto di se stessi e del proprio futuro, compresa la famiglia, la cittadinanza e l’amore stesso di una donna che ti ama. Da uomo (semi)libero, come un militare in ferma per due anni, si diviene così un soggetto criminale inseguito dalla giustizia, se il reato di ribellione è commesso contro lo Stato, oppure vittime di se stessi quando, ad esempio, al condannato che si accompagna non si restituisce la sua identità, provando a chiedergli “perché” è giunto fino a lì e qual è la sua storia, da raccontare in pochi minuti come un grande atto liberatorio e una mano tesa per regalare l’ultimo briciolo di umana comprensione a colui che è destinato a salire sul patibolo. E che cosa accade se il dio Regolamento per ogni esecuzione andata a buon fine ti “regala” tre giorni di congedo, da sfruttare per organizzare il tuo breve ma intenso... riposo del guerriero? Per l’uomo in divisa, il carceriere militare che si ribella, non c’è che la clandestinità, la fuga verso un Altrove nel quale mimetizzarsi riuscendo a non farsi mai più trovare, tagliando così i ponti con il passato e con gli affetti: tutti gli affetti, anche quelli di una figlia che non si è potuta allevare, amare, accudire.

Qui la coscienza e il rimorso si fanno compagne austere delle tue giornate e assomigliano, per la loro condotta impervia, a quei sentieri che salgono e scendono a picco in certe località aspre di tutte le montagne del mondo. A volte capita che decidere di disobbedire alla Morte per decreto lasci dietro di sé perdite importanti e verità innominabili, come quelle del morto che trascina con sé il vivo.

Un film lento, avaro di parole, come in tutte le narrazioni molto intimistiche, in cui la sostanza e il racconto delle vite vissute passa essenzialmente attraverso le immagini e i paesaggi, ai quali è demandata la spiegazione simbolica della storia e della vita dei vari personaggi, ricostruendone l’infelicità o la nevrosi attraverso l’espressione dei loro volti. Un enigma costante in attesa perenne del suo decifratore.


di Maurizio Bonanni