Visioni. “Monterossi”, un racconto confuso e frammentario

venerdì 18 febbraio 2022


Due storieallungate” in sei episodi raccontano la vita, l’indolenza e le passioni di Carlo Monterossi. Fabrizio Bentivoglio dà il volto all’investigatore per caso, al centro di intrighi e delitti consumati nel teatro anonimo di una Milano “televisiva”. Su Amazon Prime Video dallo scorso 17 gennaio, la serie firmata da Roan Johnson mette in scena due romanzi del giornalista e autore tivù Alessandro Robecchi, editi da Sellerio: Questa non è una canzone d’amore e Di rabbia e di vento. Il regista, dopo I delitti del Barlume e La stagione della caccia, prosegue la sua personale rilettura del genere “nero”. La serie scritta da Johnson, Robecchi e Davide Lantieri ritrae un antieroe contemporaneo che si guadagna da vivere, molto bene, lavorando, di tanto in tanto, come autore televisivo. È un ultrasessantenne solo, svogliato, che odia il proprio lavoro, nutre poche passioni e alimenta qualche vizio. Ama la musica di Bob Dylan, il whisky di qualità e invischiarsi nelle indagini ad alto rischio.

Monterossi attraversa un’evidente crisi esistenziale. Si vergogna delle proprie creazioni. Soprattutto di Crazy Love, una trasmissione sui sentimenti, capitanata da Flora De Pisis (Carla Signoris), una conduttrice dai toni grotteschi affamata di share. Il racconto prende il via quando Monterossi viene aggredito nella propria ricca abitazione milanese, da un uomo armato. Così inizia un’indagine parallela a quella della polizia per scoprire chi si celi dietro l’attentato fallito. La tensione aumenta con l’arrivo negli studi dell'emittente tivù di Lucia (Donatella Finocchiaro), giornalista impegnata sui fronti di guerra, ex fiamma di ritorno da Londra. Frattanto, Monterossi coinvolge nelle sue inchieste i collaboratori, Nadia Federici (Martina Sammarco) e Oscar Falcone (Luca Nucera). I due, nonostante il contratto televisivo, si prodigano nelle ricerche non convenzionali, tra cronaca nera, analisi del Web e qualche appostamento.

Un fatto è evidente: la commistione tra media diversi appare come una disamina fin troppo didascalica del rapporto tra realtà e finzione. Emerge uno sguardo piatto sulla tivù, dove l’allungamento della parabola monterossiana su sei episodi non viene sfruttato pienamente. E la narrazione si fa lenta e tradizionale. È inevitabile la ricerca di un pubblico generalista, che solitamente segue le fiction di Rai 1 prodotte dalla Palomar di Carlo Degli Esposti. Su tutte, Il commissario Montalbano di Alberto Sironi, con Luca Zingaretti. Ma, se nell’universo di Andrea Camilleri, le storie, i personaggi e il paesaggio risultano felicemente intrecciati, nella serie dedicata a Carlo Monterossi l’intreccio, la location e i volti vivono realtà parallele che non s’incontrano mai.

Anche se la serie si segnala per una cura formale invidiabile, dalla regia di Roan Johnson alla fotografia livida di Federico Annicchiarico, le mancanze attengono alla poetica, alla narrazione pura e alla direzione degli attori. A proposito del primo aspetto, il paradosso di Monterossi è chiaro: può apparire credibile un racconto per la tivù in un cui si manifesti una dolorosa idiosincrasia viscerale per l’universo televisivo? In secondo luogo è del tutto evidente l’assenza pressoché totale di ritmo. L’impianto narrativo è fragile, confuso, frammentario. D’altro canto, gli attori, altrove magnifici, nella serie sull'investigatore per caso, sembrano spaesati: dal protagonista Bentivoglio alla musa Finocchiaro, dalla conduttrice Signoris alla collaboratrice Sammarco, risultano tutti poco seguiti dal regista, per niente indirizzati. Il risultato è uno squilibrio dei toni espressivi. Così, emergono, fatalmente, i comprimari. Non a caso, i poliziotti “duellanti” Diego Ribon (il sovrintendente Ghezzi) e Tommaso Ragno (Carella), divertenti, scontrosi, credibili, rubano ampiamente la scena agli interpreti principali.


di Andrea Di Falco