giovedì 17 febbraio 2022
Il profilo più interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie, intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende d’attualità. Così è per la pandemia. Il libro esordisce: “Il potere politico si fonda sulla paura. E il caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e naturalmente il riferimento è, in primis, a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che “secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere, in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali paure sopire e quali far circolare”.
L’inconveniente, noto, è che per farlo, necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello necessario a forme politiche meno impegnative. Anche se esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque rimesse all’autorità di esperti, illuminati dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e sulla capacità di prevedere del superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).
Ciò sarebbe anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è il risultato).
Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società “c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in una macchina e la politica in ingegneria”. Da questa e da altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire Hauriou, le fond è il medesimo. Con la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali, nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritarismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza a quello pandemico”.
Con la prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”. Castellani ne individua i connotati già nella nota profezia di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a forme di delegittimazione ed esclusione dell’avversario. L’auctoritas prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia sull’inimicizia, la rule of law sul potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.
Sotto scacco di Lorenzo Castellani, Liberilibri, Macerata 2022, 115 pagine, 14 euro
di Teodoro Klitsche de la Grange