Thelonious Monk, il genio delle note sbagliate

giovedì 17 febbraio 2022


“Il Pianoforte non ha note sbagliate”, forse una delle frasi più celebri di Thelonious Monk, il maestro del jazz che, il 17 febbraio di quarant’anni fa, veniva a mancare.

“Un genio è colui che assomiglia il più possibile a se stesso” diceva, e lui dell’individualità, impulsività e istinto ha fatto il suo cavallo di battaglia, discostandosi dal resto dei musicisti degli anni Quaranta e Cinquanta. Lo stile al primo ascolto quasi inaccessibile di Monk, dominato da un’improvvisazione solo all’apparenza caotica e pieno di note dissonanti avrebbe potuto giocare contro la fama e la notorietà del musicista, che invece rimane, secondo solamente a Duke Ellington, il jazzista più registrato della storia.

Thelonious è nato nel 1917 a Rocky Mount, nella Carolina del Nord, ma nel 1922 si è trasferito a New York. Questo viaggio è coinciso con l’avvicinamento al pianoforte, che ha studiato dapprima da autodidatta, poi seguendo corsi di teoria e composizione alla Juilliard school of music. Ha mosso i primi passi nel mondo del jazz diventando, a inizio anni Quaranta, il pianista di casa del Minton’s, un locale di Manhattan. Questo bar è famoso per essere fondato dal tenorsassofonista Henry Minton che ha cresciuto, oltre al pianista, tantissimi talenti dell’improvvisazione, come Charlie Parker. Durante questo periodo ha iniziato a registrare saltuariamente insieme ad altri musicisti, ma il suo periodo più florido è coinciso con la firma per l’etichetta Riverside Records.

Qui, nel 1956, è stato prodotto il suo primo grande successo commerciale, Brilliant Corners. Questo Lp ha visto la collaborazione dell’amico sassofonista Sonny Rollins, e per la prima volta i due hanno suonato perlopiù brani originali, composti da Monk. All’inizio degli anni Sessanta, a causa del mancato pagamento di diversi diritti d’autore, Thelonious ha deciso di cambiare etichetta e firmare con la Columbia, con la quale ha fatto uscire nel 1963 Monk’s Dream, che è diventato il suo più grande successo.

Viene quasi automatico pensare che negli anni Settanta, periodo dove il jazz è diventato enormemente avanguardista, ha mutato i suoi canoni continuamente, ha ammesso influenze da diversi generi musicali e ha inglobato diversi strumenti folkloristici, il pianista di Rocky Mount ha trovato finalmente pane per i suoi denti, ma sfortunatamente, non è così. Si dice che Thelonious si sia ammalato mentalmente, chiudendosi in un mutismo probabilmente cosciente, allontanandosi per sempre dal suo un tempo amato strumento. Trascorre i suoi ultimi anni nel New Jersey, ospite della baronessa Pannonica de Koenigswarter, e nel 1982 viene a mancare per un infarto.

Monk si può dire che sia stato uno, se non il più influente, dei pianisti jazz. Il suo modo non ortodosso di posizionare le dita sulla tastiera, l’utilizzo sapiente dei silenzi nelle sue improvvisazioni, il senso del ritmo impressionante per uno strumentista non ritmico, hanno forgiato una, due, azzarderei tre generazioni di musicisti. “Solo perché non sei un batterista, non vuol dire che tu non possa tener conto del tempo”: una cosa che viene insegnata oggi in tutte le accademie musicali è stata introdotta nel mondo dello strumento proprio da Monk. Anche il suo modo di esibirsi dal vivo, rocambolesco e impulsivo, che lo vedeva spesso abbandonare lo strumento per ballare a ritmo di musica, è stato poi ripreso da diversi musicisti e frontman, non solo nel jazz, ma nell’ambito generale delle performance sul palco.

Quando si riesce a metabolizzare il muro di dissonanze e armonizzazioni atipiche delle sue composizioni, viene raggiunto il nucleo, la verità, della musica di Thelonious: lui, come nessuno prima era riuscito a fare, estraeva direttamente gioia, emozione, elettricità, dai tasti bianchi e neri, bypassando le strutture e i canoni scritti della musica. È grazie all’ eredita di questo mostro sacro che oggi possiamo dire che nel jazz le regole sono fatte per essere infrante.


di Edoardo Falzon