“Servo di scena”: la morte a teatro

lunedì 14 febbraio 2022


Come potrebbe essere la morte a teatro? Teatrale, ovviamente. Tanto più se la storia che si racconta è per così dire “nidificata” su tre livelli, incastonati per dimensione l’uno sull’altro, come una sorta di Matrix che naviga tra surrealismo, realtà virtuale e il reale vero. Il luogo dove accade tutto ciò è il Teatro Quirino di Roma in cui si recita fino al 20 febbraio Servo di scena di Ronald Harwood, per la regia di Guglielmo Ferro (figlio del compianto Turi), e che ha come principali interpreti, rispettivamente: Geppy Gleijeses (Sir Ronald); Lucia Poli (Milady, una prima donna piuttosto matura costretta a interpretare ruoli giovanili), già sorella di Paolo; Maurizio Micheli (Norman, il servo), Roberta Lucca (Madge, direttrice-regista del teatro). Partendo da quello superiore a scendere, i tre livelli nidificati sono rappresentati, in primis, dalla strada e dalla storia (esse maiuscole!) in cui sulla prima piovono dal cielo le bombe naziste, mentre la seconda ci dice che i personaggi della compagnia di guitti, sciatti e affamati, si trovano a Londra nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale.

Quel vento di distruzione e di tragedia incombe sullo spettatore fin dall’apertura del sipario, dove un disperato Norman, Servo di scena (colui, cioè, che viene saltuariamente stipendiato come cameriere tuttofare, per le bisogna del capocomico della compagnia), cerca disperatamente notizie del suo padrone che deve andare in scena di lì a poco, ragguagliato sul punto da una Milady (il suo titolo, come quello di Sir di Ronald sono dei letterali fake) appena uscita dall’ospedale dove il marito morganatico è appena stato ricoverato in stato confusionale. Inutile dire che, quasi miracolosamente, Ronald riapparirà all’improvviso per fare il suo dovere di primo attore protagonista di un quanto mai improbabile Re Lear, seppur da lui recitato centinaia di volte in precedenza. Nel 90 per cento circa delle sue apparizioni, Gleijeses recita praticamente in mutande, senza eccessivi pudori nei confronti degli attori della sua compagnia, Norman compreso, ovviamente, che si premura in più di un’occasione di coprirlo con una vestaglia decente. Eppure, è proprio quella nudità così esposta e impermeabile ai commenti e alle critiche a suggerire che il personaggio non è propriamente in sé.

L’altra dimensione incastonata è quella del backstage, il retro del teatro cioè dove sono posizionati i camerini, con tanto di dormeuse e di toletta per il trucco ad arredare lo spazio intimo e personale di Sir Ronald. L’ultima, paradossalmente la più piccina delle tre dimensioni nidificate, coincide con l’ambiente teatrale vero e proprio, dove unica Dea è la Finzione che cancella, annichila e nasconde per il tempo necessario le angosce umane individuali, nonché le complicate, controverse relazioni che si intessono tra i membri della compagnia e, soprattutto, con il loro capo capriccioso e gaudente. Lì, in quella dimensione, stanno il pubblico, il sipario e il palcoscenico che, con una trovata scenica, sono posti contemporaneamente fuori e dentro la corte interna del backstage, grazie a un gioco di ombre cinesi e a spazi completamente aperti, scoperchiati come farebbe una bomba che esploda sul tetto della palazzina, e di cui in verità si sentono in lontananza i rumori cupi e sordi. Ed è la brusca realtà della guerra, con i suoni laceranti delle sirene d’allarme, a sconvolgere periodicamente quella estraneità idilliaca che solo lo spettacolo dal vivo sa donare.

Siccome quando la Morte ti morde i calcagni e tu che sei la vittima designata in qualche modo te ne accorgi, allora è in quel momento che decidi di avere il sussulto vitale. O che tendi, come Ronald, ancora ad assaporare il profumo di donna di una carnagione giovane o di zitella matura, che si è votata alla causa del teatro per l’amore mai ricambiato che sente nei confronti di Ronald, padre-padrone della compagnia, sempre in cerca di un bordello ogni volta che si mettono le tende in qualche cittadina di provincia. E poiché, a quel punto, il piede inciampa di continuo, le gambe si trascinano e la memoria inizia a fare gran difetto, allora tutto il carico va a gravare su colui che, per affetto e per mestiere, non si può sottrarre, come il Servo di scena. In buona sostanza, un ruffiano, un po’ suggeritore e molto spesso complice e custode dei segreti del suo padrone, più per passione che per mero interesse.

L’opera, in sintesi, è simile a un bassorilievo che dà un giusto volume al rapporto umano (spesso perverso e distorto) che intercorre tra domestici e datori di lavoro, in cui i primi, spesso, sono i veri padroni dei secondi, perché in loro c’è una predisposizione innata a creare nell’altro una dipendenza affettivo-funzionale impossibile da recidere, con il passare del tempo. Il servo, infatti, è sempre al corrente di tutti i segreti del suo signore, e svolgendo un ruolo di mezzano nelle situazioni più piccanti, è di tipo multiruolo: scudiero, confessore, consigliere, giullare e fustigatore. Nel teatro, il servo significa anche l’offerta gratuita di due braccia in più, per far girare le macchine di scena, come quelle che imitano i rumori della tempesta. Così, come è sempre lui, terrorizzato dalle evidenti défaillance fisiche del suo padrone che mettono a serio rischio il suo posto di lavoro, a spingere Ronald ad arrivare a tutti i costi fino in fondo alla recitazione e all’ultima scena del Re Lear, richiedendo all’anziano protagonista uno sforzo immane che gli sarà fatale, procurandogli quel passaggio all’eternità di colui che muore “sul pezzo”, come ogni buon soldatino che si rispetti, ucciso dal “fuoco amico” di chi aveva giurato di essere suo servo per tutta la vita!


di Maurizio Bonanni