Parmenide. il silenzio dell’essere

lunedì 14 febbraio 2022


Tra le fondate considerazioni che Sigmund Freud ha svolto sugli orientamenti dell’uomo vi è la notazione che ogni individuo, con intensità difforme, tende ad una polarizzazione che egli, Freud, spartisce così: io ideale, ideale dell’io. L’io ideale è una meta delirante, il soggetto che idealizza se stesso, rende se stesso un ideale. È misero e compra castelli, scribacchia e si rende un capolavoro, è storto di naso e ha un naso greco classico. L’ideale dell’io è totalmente difforme, è l’individuo che ammira, stima, vuole attingere, alza lo sguardo, ha una insoddisfazione che tenta di superare, il fantasma del padre lo avvince ma non lo schiaccia, anzi si spinge a raggiungere il padre. I santi hanno pressoché tutti un ideale dell’io, ma gli scienziati, gli artisti, insomma chiunque ama vivere, esalta chi per loro ha amato la vita e compiuto alcunché di mirabile. Questa dovrebbe essere la civiltà, il passaggio di fiaccola della luce da uomo ad uomo. In un tale firmamento di persone che rendono l’esistenza non sopportabile ma gioiosissima, talune personalità imperano, sicché si rischia di passare dall’ideale dell’io all’io ideale, tanto ci immedesimiamo in loro che diventiamo loro. Tra questi spicca la figura di Parmenide, difficile per i più considerarlo un ideale dell’io.

Nel VI-V secolo dell’Era Pagana, in Grecia, nasce la disciplina che connota il nostro continente. Il pensiero si stacca dalla religione e si fonda sulla ragione. Ecco la Filosofia. Non gli dei, bensì la realtà, quella naturalistica. Per Talete la realtà viene dall’acqua. Dice invece Anassimandro: la realtà è un insieme di elementi in conflitto, in evoluzione, regolata da un principio armonizzatore (in greco apeiron). Anassimene: sono le mutazioni dell’aria che ordinano la realtà nei suoi andamenti. VI-V secolo dell’Era Pagana. Insieme alla filosofia nasce Parmenide. Abbiamo abbastanza frammenti delle sue opere. Terribili. Quanto Platone, spaurito, ne diceva, era sinceramente fondato. Possiamo stimare altri pensatori fino all’esaltazione, ma Parmenide? Incredibile. Quanto sto per scrivere sembra la rivelazione più semplice, evidente, persino banale, che ci ha insegnato.

Dentro di noi abbiamo due strade per conoscere la realtà, dice Parmenide: la strada delle sensazioni, del molteplice, del mutamento, del nascere e perire, perire e nascere. Questa conoscenza è detta dòxa. La cognizione mediante i sensi ci offre questo spettacolo vario, cangiante. Al contrario, la conoscenza mediante la ragione (epistéme), ci fa toccare la realtà oltre i sensi. È una divisione di tipo induista, vedica, ma che Parmenide rende nitida e fa entrare nella filosofia occidentale. Gli uomini, continua il filosofo, sono comandati dai sensi e godono di questa realtà effervescente, ricca, sorgiva. Si dedicano ad essa come se stessero su una giostra per l’infanzia. L’uomo si distrae, attratto dai moti funambolici del cambiamento. Ma la ragione intuisce che in tal modo l’uomo non comprende. La conoscenza dei sensi è tutta apparenza. In verità la realtà è meramente l’essere, un’esistenza inspiegabile. Di essa possiamo dire soltanto: è.

Nessun aggettivo, nessuna valutazione, l’essere è. Inizio e fine. Un tutto totale, compatto, eterno, immotivato, “c’è”. È un qualcosa di non sorpassabile, niente di trascendente, l’essere non trascende se stesso, è inconcepibile, nudo, spoglio, non Dio. È pieno essere, che esaurisce se stesso nell’esistere. Cosa viene compreso come vero? Che esiste l’esistenza, l’essere, precisamente. Il resto è un effetto secondario, dovuto alla distrazione dei sensi. Persino il pensiero, in Parmenide, è manifestazione dell’essere. Siamo fatti in questo mondo, e che ne traiamo dalla sua lezione? Che anche noi siamo nell’essere. E Storia, civiltà, vita, morte? Sono comunque subordinate a questo. Domina nell’universo la presenza dell’essere: eterno, inspiegabile, muto, totale, al di là di ogni precisazione. Essere e basta. Aria? No. Si è imprigionati nell’essere. Non vi è scampo.

E dio? L’al di là? Parmenide, ricevuta questa domanda, non mi guardò, Poi udii la sua voce: “Mi esistenzializzi, Anthonios!”. Era un apprezzamento? Gli ideali dell’io sono severissimi. Una precisazione, di sicuro Parmenide dicendo “Mi esistenzializzi”, non intendeva che io lo facessi alla stregua di Martin Heidegger. E mai lo farei. Dentro l’essere di Parmenide io scorgo soltanto quest’abissante certezza: ciò che esiste è, e non si sa altro. Non si può oltrepassare l’essere dell’essere, e tutte le domandine metafisiche, ontologiche, “religiosette”, sono spari nel vuoto.


di Antonio Saccà