Visioni. “Don’t look up”, un racconto manicheo sull’apocalisse

venerdì 4 febbraio 2022


Capolavoro o flop? Il dibattito su Don’t look up divide ancora il pubblico e la critica. Il film di Adam McKay, interpretato da Leo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep e Cate Blanchett, su Netflix dallo scorso 24 dicembre (in sala per qualche giorno, a partire dall’8), ha scatenato una diatriba incandescente tra negazionisti e ambientalisti. Il nono lungometraggio del cineasta di Filadelfia (Pennsylvania, Usa), premio Oscar alla migliore sceneggiatura non originale nel 2016 per La grande scommessa (The Big Short), racconta la storia di una scoperta scientifica. Secondo accurati calcoli, la dottoranda in astrofisica Kate Dibiasky (Lawrence) e il suo docente all’Università del Michigan dottor Randall Mindy (DiCaprio) sono convinti che entro sei mesi una gigantesca cometa colpirà la Terra e provocherà l’estinzione del genere umano. Riescono a riferirlo alla presidente degli Stati Uniti, la democratica Janie Orlean (Streep).

A quel punto, il destino dei due scienziati prende strade diverse. Dibiasky lancia l’allarme terrorizzando, letteralmente, il mondo. Mentre Mindy si lascia cullare dal successo, trasformandosi in un personaggio dell’informazione-spettacolo. Così è protagonista di talk show, intreccia una relazione sentimentale con la telegiornalista Brie Evantee (Cate Blanchett), abbandona la moglie e la famiglia e si lascia usare dalla Casa Bianca e dalla Nasa per fini propagandistici. La cometa assurge, chiaramente, al rango di metafora. Il riferimento alla stagione pandemica è evidente. Gli schieramenti sono ben distinti: da una parte figura la scienza. Dall’altra, i suoi detrattori. “Don’t look up” (Non guardare in alto) diventa lo slogan delle posizioni antiscientiste. Allo stesso tempo, “Look up” (Guarda su) è il mantra di chi intende fidarsi, con amara lucidità, della scienza.

Il film ambisce ad entrare nel Pantheon del cinema d’autore. Si sprecano gli immeritati accostamenti al magistrale Il Dottor Stranamore (1964), esempio insuperato di film satirico che racconta i rischi di una guerra nucleare. Ma se Stanley Kubrick fa ridere usando “l’arma” del divertito sarcasmo, Adam McKay non sa quale tono conferire al proprio film: denuncia grottesca o invettiva severa? Nell’incertezza decide di non approfondire lo spessore psicologico dei personaggi. Rifugge il dubbio, le posizioni sfumate e insegue un approccio definito. Pur confidando su un intero gruppo d’attori (è proprio il caso di dire stellari) pluripremiati con la statuetta dell’Academy Award, il regista non riesce a centrare l’obiettivo. Perché non è interessato a dirigere gli interpreti. È affascinato, esclusivamente, da una poetica manichea. Il risultato del racconto non è la descrizione del nostro tempo. L’approdo finale è affetto da un didascalismo urticante. Per queste ragioni, il film è il classico equivoco che trae in inganno. Non è una divertente satira sull’apocalisse. Ma un autentico pasticcio, che naviga nel mare indistinto del compiaciuto catastrofismo.


di Andrea Di Falco