Capodici rilegge lo psicodramma pirandelliano

venerdì 28 gennaio 2022


“E qui inizia la (dis)avventura del Signor Bonaventura. Parafrasando la celebre striscia a fumetti creata nel 1917 da Sergio Tofano per il Corriere dei Piccoli, ne viene fuori l’immagine del protagonista di uno dei romanzi più sofisticati e complessi di Luigi Pirandello, Uno nessuno centomila, la cui riduzione teatrale, curata dal regista Antonello Capodici per l’interpretazione (praticamente imperdibile!) di Pippo Pattavina, va in scena al Teatro Quirino fino al 30 gennaio. Un Pirandello che, in quest’opera, si traveste in vari modi e parla di sé attraverso il rovello esistenziale di Vitangelo (Gengè) Moscarda, facendo agire per suo conto i personaggi maschili e femminili della pièce, scritti per impersonare altrettante angosce e dilemmi esistenziali, componendo così allo sguardo dello spettatore un complicato mosaico psicoanalitico. Per l’essenziale, si rilevano tre quadri (o quadranti) al cui interno si svolgono drammi dolorosi, conflitti di potere e sentimentali, tradimenti e passioni dai quali non sono estranei né vengono sottratti alle loro responsabilità istituzioni come la Chiesa, la Giustizia, la Famiglia e gli affetti in generale, con i loro profittatori e grandi sacerdoti che indossano la veste talare, come cardinali e parroci.

Tutto ha inizio da un fatto scatenante e banalissimo, allorché la moglie di Gengè, Dida, fa notare al marito una caratteristica somatica alla quale lui non aveva fino ad allora fatto caso come il suo naso storto. Un dettaglio quest’ultimo, un particolare tratto distintivo ma fondamentale del volto, che fa da innesco a una meccanica pirandelliana più simile a un apparato a orologeria impazzito, in cui ciascuna delle componenti appare girare per un verso autarchico, per poi ricomporsi misteriosamente in un unico movimento che muove l’intera rappresentazione. Una sorta di macchina dissociativa/associativa, in pratica. Sicché, in un peregrinare folle quando lucido (soliti paradossi della narrativa pirandelliana), Moscarda va cercando sé stesso in dieci, cento altri anonimi passanti i cui difetti fisici fanno, da un lato, da pietra di paragone rispetto al proprio, mentre dall’altro non arrivano mai a costruire un principio consolatorio derivante dal fatto che nessuno, per l’appunto, è perfetto. Da intendere quest’ultimo concetto nel senso composito, ma vitale, che non esiste una sola sfaccettatura, un aggetto unico della propria personalità, e sempre quello, che ognuno di noi proietta nella mente percettiva dell’Altro da Sé.

Per cui, il Noi stessi non è altro che una sorta di iper-quadro braquiano (da Braque, forse il più celebre dei maestri del movimento cubista, nel quale si riconobbe anche il primo Picasso), composto da centomila e più frammenti, tanti quanti sono gli osservatori possibili, e praticamente pari al numero medio di persone che ognuno di noi ha occasione di incontrare in tutta la durata della sua vita di relazione. Quindi, il secondo quadro (esistenziale), che si lega a quello conclusivo, ci dice che bisogna essere nessuno per essere poi tutti e tutto in una sola volta. Una sorta di effetto relativistico (generale) per cui è come se, contemporaneamente (ma Pirandello non poteva saperlo) il Personaggio-chiave avesse la possibilità, per assurdo, di percorrere tutte le sue possibili linee dell’Universo, ovvero infinite vite in una sola! Così, inevitabilmente, appare improvvisa e per sempre inseparabile da lui la Dea della Follia. Se ne accorge da subito la moglie Dida che si offre sensuale al marito, mentre costui prova orrore di quell’intimità coniugale, che non coglie in nulla il suo dramma interno.

Se ne accorgono a effetto ritardato i suoi stretti collaboratori, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, impiegati da una vita nella banca paterna e non si sa quanto infedeli, dato che uno dei due fa ricoverare in manicomio una consorte scomoda, mentre l’altro si scopre essere l’amante di sua moglie Dida, con la complicità della quale i due procedono, come il Gatto e la Volpe, con le pratiche sleali della subornazione di incapace per disporre a loro piacimento del denaro e del potere di firma del loro datore di lavoro. Per contrappasso, investiti come un uragano dalla follia di Gengè, i due sono costretti ad assistere a una furia intrisa di paradosso del padre-padrone, che ai loro occhi di felini rappresenta solo uno stupido feticcio. E qui, nel gioco sempre un po’ perverso e contorto da cui prende forma la grafica dei personaggi, Pirandello ci descrive l’altro lato oscuro del nostro non-essere: quello generato dalla proiezione che i nostri genitori fanno di noi, e come essi stessi ci collocano nel mondo. In tono dispregiativo, nel caso di Vitangelo: un buono a nulla agli occhi di suo padre, perché fallito negli studi e incapace di gestire gli affari di famiglia. Così, interior ed exterior si esercitano in una danza ora macabra, ora assurda, ora ironica inseguendo le varie facce di un’unica personalità, immersa in un mondo relazionale che inizia a sfuggirgli del tutto, come le pareti e i quadri di una stanza quando si scatena la vertigine.

Nell’ultimo riquadro, si avvitano e si intrecciano tra di loro almeno due paradossi. Il primo riguarda il ripudio del nomen: per tutti Vitangelo è l’Usuraio, tale e quale a suo padre. Allora, come togliersi questa maschera di ferro che altri hanno saldato sul nostro volto? Prendendo un esempio concreto: la donazione di una casa di abitazione e dell’attribuzione di un vitalizio che, a suo tempo, il padre banchiere aveva fatto a uno strano personaggio, Marco di Dio, e a sua moglie Diamante, coperti di stracci e di miseria. Uno scultore fallito, quest’ultimo, finito nelle maldicenze del paesino per aver attentato alla virtù di un suo modello, e condannato (non si capisce quando fondatamente) per questo atto lussurioso. Obbligando Firpo e Quantorzo a sfrattarlo per morosità (ben sapendo che si trattava di un falso!), Moscarda denuncia se stesso presso il notaio, in modo che si venga a scoprire il fatto ab origine della donazione, lavando per così dire l’onta dell’Usuraio tramandata di padre in figlio agli occhi malevoli della società, per instillare in quest’ultima il nuovo concetto io sono come mi vorresti e non come mi vedi. Il problema che, per eliminare il nomen nominis del malaugurio, occorre cancellare del tutto sé stessi, divenendo per l’appunto, un Signor Nessuno.

Il secondo paradosso viene pirandellianamente incardinato sulla figura femminile dell’amante, Anna Rosa, una sorta di oligofrenica, inseparabile dal suo piccolo ma micidiale revolver, eredità paterna, con il calcio in madreperla (e qui la ricchezza si accompagna implacabilmente alla perversione e alla noia esistenziale), che utilizza per ben due volte in presenza di Gengè. La prima, tentando l’omicidio del suo spasimante, la vede ferirsi maldestramente a un piede. La seconda, invece, centra il suo bersaglio ferendolo non gravemente, proprio quando Vitangelo stava per assaporarne il frutto proibito. Certo, ci si chiede: Perché? E qui, forse, gli strumenti della psicanalisi aiutano. E il segreto sta tutto nel potere destrutturante ma estremamente contagioso della follia del protagonista: Anna Rosa ne è al contempo perdutamente affascinata e vittima: usa l’arma all’improvviso, colma del suo nonsense, per arrestare, cancellare i fantasmi eccitati nella sua mente dalle parole corrosive del suo amante, al quale non può, non è in grado di opporre la sua di parola. Troppo complicato? Beh, allora andatevelo a vedere con una moglie psicanalista, se ce l’avete!

Uno nessuno centomila

Regia: Antonello Capodici

Interpreti: Pippo Pattavina, Marianella Bargilli, Rosario Minardi, Mario Opinato, Gianpaolo Romania

Musiche: Mario Incudine

Teatro Quirino, Roma


di Maurizio Bonanni