“Il malato immaginario” nella personale rilettura di Solfrizzi

lunedì 3 gennaio 2022


Un clistere come un dolmen. Così, al centro della scena del personaggio protagonista, in teatro come nella vita, è collocato un Totem di legno multipiano con tanti scaffali quanti sono i farmaci che Il malato immaginario di Molière deve infondersi nelle viscere, per scacciare i suoi fantasmi di giorno che lo separano da una realtà sgradevole e incontrollabile. Emilio Solfrizzi ne dà una personalissima interpretazione, con la Compagnia La Contrada del Teatro Stabile di Trieste, in scena fino al 9 gennaio al Teatro Quirino di Roma, salendo e scendendo in continuazione dal quel Totem ligneo collocato nella parte centrale del palcoscenico, in cui le pareti circostanti sono coperte da un immenso panneggio cielo-terra di tende azzurre a bande verticali, che danno all’insieme un tempo di quiete, esaltando il bianco candido della tenuta da notte del nobile Argante/Solfrizzi, il malato immaginario. Proprio lui, il tristo protagonista che cerusici incompetenti adoratori del latinorum continuano a (non)curare, facendo ricorso a terapie ignoranti, totalmente ignare dei criteri scientifici di base del reale funzionamento del corpo umano e della sua fisiologia. Quindi, che cosa resta se non il ricorso allo sciamanismo, ai travestimenti da stregone di colui che legge il futuro da qualsivoglia composto organico, creando formule magiche per guarire l’inguaribile con parole inventate e incomprensibili?

Ma questa cianfrusaglia da ciarlatani funziona come l’omeopatia in tutti quei casi dove la malattia è solo un’invenzione dell’ipocondriaco perfettamente sano. Solo che, per fargli scoprire questa banale realtà, nel caso di Argante, dovranno mettersi al lavoro in due, un fratello affezionato e senza timori reverenziali nei confronti dell’aîné, e una serva dalla lingua tagliente, ironica e franca chiamata a servire in casa dalla seconda moglie di Argante, Belinda, interessata soltanto al denaro di suo marito e a togliere di mezzo le due eredi legittime, le figlie Angelica e Luigina, sistemandole anzitempo in convento con una lauta dote. Come in tutte le farse familiari, anche qui, nell’opera magistrale di Molière, grande fustigatore dei suoi tempi fatui e imparruccati, affollati di uomini inutili e decadenti, borghesi arricchiti e nobili nullafacenti, a tramare la tela e a tirare le fila sono solo e sempre le donne. Facile, in fondo, aggredire la fragilità di un uomo infragilito dalla condizione ipocondriaca che lo vuole malato a ogni costo, prima che marito e padre. Eppure, malgrado tutto, l’affetto profondo è una sonda che penetra lo sottile corazza della follia innocente, regalando al poveretto che ne è afflitto lampi di lucidità che lo aiutano a riconoscere le vere priorità affettive: la figlia maggiore non la si manda in convento, ma le si offre un’occasione di vita maritandola a un uomo perbene.

Pazienza se, poi, questo è un povero scemo semi-sapiente, come Tommaso Diaforetico, laureato medico per meriti esclusivamente paterni, dall’aspetto poco gradevole, che suo padre, figlio del dottor Purgone, medico di fiducia di Argante, manovra come si farebbe con una scimmietta ammaestrata, pronta a cantar messa e a fare moine al solo comando della voce del padrone. Su questa allegoria se ne potrebbero allineare parecchie altre, tratte dalla vita politica quotidiana, con tanti menestrelli che cantano le lodi del loro datore di lavoro, padre-padrone del partito o del movimento politico che ha regalato e garantisce loro potere e agi. Quanti dottor Purgone, abbracciati al feticcio del dolmen purgativo di Argante, potremmo descrivere in situazioni analoghe, in cui l’intera opinione pubblica è abbindolata da promesse di guarigione (dai malanni socio-economici) impossibili da mantenere? Nelle donne, ora come allora, l’umanità depressa e ipocondriaca (mai come in questi tempi di pandemia invincibile si avverte la sindrome di Argante!) cerca una via d’uscita e la salvezza dai suoi timori esistenziali. Nel teatro di Molière la soluzione è a portata di mano: fingersi morti per scoprire chi davvero ti ama di coloro, moglie e figlie, che abitano nella tua casa. A trovare la soluzione sarà un Machiavelli in gonnella, la serva Tonietta, che come il foul shakespeariano suggerisce e comanda al re la cosa giusta da fare. Almeno, a teatro, è l’amore autentico che trionfa. Magari, con qualche sotterfugio a fin di bene.


di Maurizio Bonanni