Rinascimento: al Palladio e altri artisti un maiale al mese come compenso (ma oggi è peggio)

giovedì 16 dicembre 2021


Come campavano gli artisti ai tempi in cui la seta si filava nelle seterie di Vicenza? Se ne parla nella mostra La fabbrica del Rinascimento, nella basilica palladiana vicentina, aperta fino al 18 aprile 2022.

La Peggy Guggenheim di Vicenza, Bianca Nievo, poetessa, protettrice e mecenate degli artisti, fu strangolata dall’Inquisizione perché si era convertita con altri al protestantesimo, contro le derive neopagane che aleggiavano nell’Italia papalina e laica. Vicenza in quegli anni era colta e ricca, molto ricca, grazie a seterie che esportavano in tutta Europa, e la città, che era diventata il terminale della Via della Seta e l’hub europeo dei tessuti, cercò di sottrarre a Venezia parte del dominio del Veneto. Se Venezia era la potenza del nordest, Vicenza nel 1500 si dipingeva come una risorta città dell’impero romano; in quanto tale diede uno straordinario impulso alle arti rinascimentali neoclassiche, di cui esempio luminoso è il magnifico Teatro Olimpico (vedi foto). Dipinti, statue e preziosità di oreficeria riproducevano l’Arcadia del piccolo impero vicentino al massimo del suo fulgore, contro una Venezia “capitale di regione” matrigna e padronale. Erano anni in cui i Palladio, gli Jacopo da Bassano, i Paolo Veronese accorrevano in una Vicenza che si faceva sempre più bella, non solo più ricca.

Erano tuttavia incredibili le paghe degli artisti. Lo stipendio del Palladio – che realizzava e dirigeva la costruzione della basilica Palladiana in cui è ospitata la mostra – consisteva in un maiale al mese. Erano molto più pagati i lavori di oreficeria e i busti in marmo: centinaia di maiali furono pagati per una croce in cristallo di rocca. Settanta maiali per un arazzo. In pratica la moneta di scambio per gli artisti convenuti in quella parte di Veneto erano i suini, non certo la lira veneziana citata già in documenti del 953 e soppressa da Napoleone nel tragico 1797, al termine di una campagna militare che fu un abbaglio per i patrioti che speravano in un’Italia unita, e che un evento funesto per la gloriosa Venezia, diventata una Svizzera assassinata dalla Storia e da un (presunto) liberatore di popoli. Peccato che l’Italia non ricordi la Serenissima come una Svizzera perduta per sempre per mano di un falso libera-popoli e di un vero arraffa arti e ricchezze.

I valori del mercato artistico nel Veneto del XVI secolo erano a volte assurdi: un paio di guanti per ricche donne borghesi costava più del capolavoro mondiale Due cani da caccia di Jacopo Bassano, finito al Louvre di Parigi e in questi mesi presente all’evento di Vicenza. La mostra della basilica palladiana in questi mesi è il fulcro dell’arte internazionale, con opere che sono arrivate dal Louvre di Parigi, dal Prado di Madrid, dal Victoria & Albert Museum di Londra, dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, Walters Art Museum di Baltimora, Gallerie degli Uffizi di Firenze, e infine dalla Galleria Borghese di Roma e dai Musei Vaticani. Non si tratta quindi di una di quelle mostre molto fumo e poco arrosto, non solo per la presenza di opere straordinarie ma anche perché il tema individuato, tra arte, mercato dell’arte e società, è di una straordinaria attualità, in un mondo in cui tutta l’arte sta dentro lo smartphone di un qualsiasi umano, ma non più dentro il suo cervello e dentro alla sua anima, (r)esistente grazie alla passione per la Bellezza e l’amore elettivo di goethiana memoria. Abbiamo bisogno di arte nuova e rinascimentale, in un mondo reso schiavo dal photoshopping? E chi darà almeno un maiale a un nuovo Paolo Veronese?


di Paolo Della Sala