lunedì 22 novembre 2021
Francesco De Sanctis sentenziò un giorno che “musica e ballo non producono valentuomini, ma buffoni”. Questa lapidaria asserzione – riportata in esergo al volume La cultura musicale degli italiani, di cui si parlerà in una tavola rotonda coordinata da Carla Nolledi all’Istituto musicale Boccherini di Lucca sabato 27 novembre (ore 17) – costituisce ancora oggi un emblema eloquente del rapporto della scuola italiana con l’educazione musicale. Se infatti la radio e la televisione hanno in parte surrogato i compiti della scuola, il ruolo della musica nella formazione dei nostri studenti è sempre rimasto del tutto marginale, e questa circostanza, se si considera l’importanza dell’Italia nella storia della musica e della musica nella storia d’Italia, non può che risultare sconcertante.
Nel saggio che apre il volume, La musica nella formazione scolastica degli italiani, Luca Aversano spiega che “le ragioni di questo svilimento pedagogico si possono ricondurre alle caratteristiche proprie dell’arte musicale: la sua sensualità, la sua immateriale fuggevolezza, il suo potere di sollecitazione emotiva di certo non ne favorivano l’assunzione all’interno di un paradigma educativo fondato essenzialmente su norme trasmesse attraverso testi verbali, in un canone ristretto e selezionato”.
Considerando tutto ciò che non è funzionale alla realizzazione di tale paradigma come superfluo o addirittura dannoso, fino al secolo scorso anche illustri intellettuali che si occupavano più o meno direttamente di scuola non si posero il problema dell’utilità della musica sotto il profilo formativo. Per esempio, “Lodovico Antonio Muratori, sacerdote proveniente da formazione gesuitica, non considerava la musica tra le discipline degne di essere insegnate nella scuola e nell’università, pur essendosi molto occupato dei rapporti tra poesia, dramma e musica, non solo sul piano teorico, ma anche nell’esperienza pratica”. Le cose non sono d’allora molto cambiate, nonostante che l’utilità di un’educazione musicale sia riconosciuta in molti paesi dotati di sistemi scolastici particolarmente efficaci.
Le origini del riconoscimento della funzione educativa della musica risalgono al Settecento, dato che la prima nazione a sperimentarne i benefici fu la Prussia di Federico il Grande. In seguito, il grande contributo fornito dall’educazione musicale al sistema d’istruzione tedesco indusse anche altre nazioni a seguirne l’esempio e l’importanza di tale insegnamento crebbe costantemente, influenzando in modo sempre più decisivo la formazione culturale dei popoli europei.
In Italia, invece, rimase sempre vivo il timore che la musica potesse distrarre le menti degli allievi dall’attenzione ad altre discipline, nonostante che fosse chiaro, almeno fin dalla seconda metà del XIX secolo, che in tutte le scuole ove l’insegnamento musicale era sviluppato tutti gli altri insegnamenti ne risentivano in modo positivo. Ignorando deliberatamente le statistiche che lo dimostravano, in Italia si continuò a considerare la musica come un tipo di studio “pre-linguistico e pre-logico”, ovvero un modo per coltivare una sorta di “rousseauiana spontaneità” che, com’è noto, non è mai stata molto apprezzata all’interno del nostro sistema educativo.
In uno dei paesi musicalmente più ricchi al mondo – come attesta il fatto che l’unica arte in cui la lingua italiana è ancora oggi la più importante è proprio la musica – l’educazione musicale è sempre stata considerata una sorta di ornamento, una piacevole ancella di discipline più “serie”, e cioè di quelle ritenute intellettualmente più significative. Bisognerà aspettare il Congresso internazionale di arte figurativa e di musica del 1952, tenutosi a Venezia tra il 22 e il 25 settembre, perché vengano avanzate delle proposte innovative: in quella circostanza Cesare Valabrega sottolineò infatti che le audizioni discografiche nelle scuole potevano essere utili, “mentre un ordine del giorno suggeriva l’estensione della storia dell’arte e della musica alle scuole medie, in condizioni di parità con le altre discipline”.
Qualche anno dopo, Fedele d’Amico, in uno scritto intitolato La musica nella scuola obbligatoria (1963), formulerà una tesi ancor più eloquente e perentoria, rimarcando “l’alto valore formativo della musica”, consistente nella sua capacità di “orientare un bisogno essenziale dell’uomo, quello di ordinare ed esprimere il suo tempo interiore”. Secondo D’Amico, cioè secondo uno dei maggiori critici musicali italiani del Novecento, “l’insegnamento della musica a scuola avrebbe inoltre rappresentato un argine contro la banalizzazione diffusa nella società, contribuendo a sviluppare le capacità di ascolto attivo, basato cioè sul giudizio critico e sul discernimento”.
Osservazioni come queste, troveranno alcuni anni dopo qualche traduzione operativa nelle disposizioni di Franca Falcucci, una brava ministra della pubblica istruzione che allora non venne forse abbastanza apprezzata. Fu infatti lei a sostenere che la scuola doveva educare al suono e alla musica, sia producendola sia ascoltandola: l’educazione al suono e alla musica ha infatti “come obiettivi generali la formazione, attraverso l’ascolto e la produzione, di capacità di percezione e comprensione della realtà acustica e di fruizione dei diversi linguaggi sonori”.
Al 3 giugno del 1991 risale invece il decreto del ministro Riccardo Misasi, che rende esecutivi i nuovi orientamenti. In tale decreto si osserva tra l’altro che “l’importanza della musica è evidente per la comprensione dei nuovi linguaggi della civiltà dell’informazione nell’era multimediale, che i bambini dovrebbero imparare a utilizzare in modo consapevole, per potersi difendere di fronte ai rischi di omologazione immaginativa ed ideativa che la comunicazione mass–mediale comporta”.
Anche queste premonizioni – che in realtà non valgono solo per i bambini, ma anche per studenti più grandi – si riveleranno profetiche, ma i relativi rimedi saranno disattesi, e non tanto nelle scuole primarie, quanto specialmente negli istituti scolastici superiori di secondo grado, dove l’insegnamento della musica, se si escludono i recenti licei musicali e in parte i licei socio-psico-pedagogici, rimarrà sostanzialmente assente. Per quanto infatti venga in seguito riconosciuta l’importanza del suo insegnamento anche nei licei – “e ciò sia per il valore intrinseco della disciplina nel quadro della civiltà italiana, sia per il contributo di chiarificazione che tale studio può dare alla conoscenza di movimenti culturali italiani e stranieri” – queste buone indicazioni resteranno per lo più prive di conseguenze pratiche.
Negli ultimi trent’anni del Novecento si può invece osservare una qualche tendenza migliorativa nelle scuole medie inferiori, e questa tendenza è confermata anche in questo scorcio di nuovo millennio. Tuttavia, il fatto che questi miglioramenti siano percepibili solo alle medie di primo grado, dove la musica è diventata insegnamento curriculare, conferma che l’importanza dell’educazione musicale a scuola rimane “quasi un riflesso della visione rousseauiana, che collegava la musica alla spontaneità, alla naturalezza e all’infanzia dello spirito – e deve rimanere riservata all’età dell’infanzia e della pre-adolescenza, con la possibile eccezione, in età adulta, del genere femminile. L’insegnamento della disciplina negli istituti magistrali era d’altro canto destinato alla preparazione dei maestri e delle maestre elementari, non a un approfondimento culturale ‘autonomo’, cioè legittimo di per se stesso”.
In pratica, la musica deve rimanere fuori dalla scuola più impegnativa, e cioè quella che deve preparare le nuove classi dirigenti o, per altro verso, i nuovi lavoratori specializzati, e ciò perché è ritenuta sostanzialmente estranea “ai meccanismi di riflessione logico-razionale che caratterizzano l’apprendimento adulto nei licei e nelle altre scuole superiori di II grado”. Questa impostazione culturale generale non verrà smentita nemmeno dalla creazione dei licei musicali, confermando che “gli sforzi per il potenziamento dell’educazione musicale nella scuola si sono rivolti quasi esclusivamente in direzione dell’aspetto performativo”. In questo modo, “la pratica musicale è rimasta collegata essenzialmente a una questione professionale piuttosto che culturale. Sarebbe invece opportuno – spiega ancora Luca Aversano – conciliare la diffusione della musica come esercizio pratico con la promozione della sua conoscenza storico–critica, in modo che la disciplina non corra il rischio di essere percepita come occasione di mero spettacolo o intrattenimento, ma sia intesa anzitutto come fenomeno artistico e culturale.
Probabilmente solo l’azione combinata di questi due aspetti – che richiamano l’arcaica dualità, insita nell’arte musicale, tra l’elemento sensibile dei suoni e l’elemento teorico-speculativo che soggiace ai loro rapporti – potrà essere in grado di liberare la materia musica da quell’aleggiante, inconsapevole sospetto di essere una disciplina scolastica poco idonea alla formazione dell’individuo, quasi d’ostacolo e di turbamento ai processi critici del pensiero”. Secondo questa prospettiva, di cui Aversano caldeggia giustamente l’adozione, l’esperienza musicale è strettamente collegata “con la rete dei significati che contribuiscono alla costruzione della realtà sociale”, ed è, al tempo stesso, un’importante “risorsa per riflettere sulla costituzione dell’identità e lo sviluppo di stati o eventi emozionali”.
Nonostante queste sacrosante considerazioni, e nonostante gli appelli rivolti alle nostre istituzioni da illustri musicisti che da tempo cercano di restituire alla musica un’attenzione che sta languendo (l’ultimo in ordine di tempo è stato Danilo Rossi, prima viola nell’orchestra della Scala), l’educazione musicale, almeno nelle scuole secondarie superiori, è tutt’oggi ignorata e la maggior parte degli studenti non ha mai ascoltato per intero nemmeno un brano di musica classica o di musica jazz. Una simile carenza nella formazione musicale e culturale di così tanti studenti si è poi aggravata negli ultimi anni, ovvero man mano che la funzione supplente della radio, della televisione e delle famiglie è progressivamente scemata, sostituita da quella psicologicamente invasiva di internet e dei social network.
Nietzsche pensava che senza la musica la vita fosse un errore. Anche senza arrivare a convinzioni così radicali, la lettura di questo libro curato da Andrea Estero rafforza però la convinzione che sia un errore del tutto arbitrario e ingiustificato privare gran parte degli studenti italiani di un’educazione musicale. Eppure, nonostante l’impegno di alcuni docenti nel cercare di colmare almeno in parte questa carenza, quest’errore viene da sempre reiterato, facendo mancare un elemento fondamentale alla formazione culturale dei nostri giovani. In particolare, ciò che ancora oggi, e da molto tempo, ancora manca, ciò che è stato soprattutto sacrificato dalla scuola, è l’educazione all’ascolto musicale. Oggi, in pratica, uno studente può diplomarsi in un liceo italiano senza aver mai ascoltato un brano di Bach, Mozart o Beethoven, talora senza conoscerne l’esistenza, e comunque senza che gli sia stata fornita l’occasione per capire se quel tipo di musica poteva piacergli. La musica è stata di fatto rimossa dal sistema educativo della maggior parte delle scuole superiori. E non si tratta di una rimozione marginale, perché “la musica c’insegna – come ebbe a dire Ezio Bosso – la cosa più importante che esista: ascoltare”. E ascoltare non solo delle sequenze di note e di silenzi, ma tutto ciò che nell’anima umana può trovare le sue proprie risonanze, vale a dire i riflessi molteplici di tutte altre arti, del pensiero e della vita.
La cultura musicale degli italiani di Autori vari, a cura di Andrea Estero, Guerini Associati, 2021, 544 pagine, 45,60 euro
di Gustavo Micheletti