“Tartufo”, Molière nel XXI secolo

giovedì 18 novembre 2021


Che cos’è un bigotto senza bigottismo? Ad esempio, il Tartufo di Molière rivisto e corretto nella versione di Roberto Valerio, spettacolo nuovo e originale che va in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 21 novembre, con lo stesso Valerio nei panni di Orgone, l’infelice protagonista. Vanessa Gravina è, invece, sua moglie Elmira e Giuseppe Cederna recita il ruolo chiave del Tartufo. Poiché il contenitore in teatro annuncia i contenuti, la scenografia ha la sua bella parte in causa, organizzando lo spazio scenico in cui, alle diverse profondità prospettiche, sono ricostruiti un interno secondario e un esterno primario di una casa borghese moderna, con un grande giardino dotato di un corpo sporgente verandato, dove rileva sullo sfondo della parete centrale un’ampia vetrata scorrevole, che consente l’accesso all’esterno da un salotto di cui si intravede come unico arredo un divano moderno. Un ampio terrazzamento con balaustra, collocato al piano superiore, svolge il ruolo di palcoscenico rialzato che diviene, di volta in volta, pulpito, solarium, gineceo e rifugio di spie. Nel giardino si collocano poi un ampio tavolo per la prima colazione, una collezione di sdraio e alcune sedie, spostate di continuo dai personaggi che entrano in scena.

Le dinamiche, a questo punto, sono chiare e fluide, liberandosi delle rigidità e dalle pesantezze linguistiche e un po’ caricaturali del testo e dei costumi originali. Per dare mordente e cadenza a uno spettacolo innovativo, basteranno abiti moderni e assenza di maquillage per vestire, rispettivamente, i panni di: una domestica che gioca il ruolo del foul shakespeariano; due ragazzi giovani, una femmina e un maschio, figli figuranti di una famiglia solo apparentemente patriarcale; una giovane seconda moglie, Elmira, matrigna illuminata di questi ultimi due; Orgone, un padrone di casa talmente sprovveduto da fare rabbia anche al più imbecille degli uomini; Tartufo, un personaggio in nero, untuoso, baciapile luciferino, come potrebbe esserlo un sacerdote che commette atti impuri; e, infine, un Servo inquietante che raccoglie in assoluto silenzio gli umori perversi e le finzioni flagellanti del suo signore Tartufo, trapassando con uno sguardo apparentemente vuoto e vitreo tutti gli abitanti della casa. Se Molière costruiva intorno ai suddetti personaggi una fitta trama dell’ipocrisia vagabonda, che come una nebbia umida e spessa si insinua nelle ossa doloranti di depressi benestanti, catturati di nuovo alla vita dalle finte orazioni di chi nasconde, in realtà, gretti interessi materiali, carnali e sensuali, Roberto Valerio esalta i fattori di potenza espressiva al femminile.

Fortissime, infatti, sono le presenze sceniche di Dorina, la domestica, e di Elmira la padrona, che costruiscono vere e proprie cattedrali dialettiche per irretire, irridere e imprigionare i troppo furbi, così come i troppo cretini. Dee protettrici di una gioventù costretta e denegata nei suoi bisogni da una furia patriarcale, che sacrifica senza esitazione i suoi affetti più cari in cambio di falsità assolute. Orgone e Tartufo, infatti, sono legati da una corrente di omofilia che si esercita attraverso una magia sciamanica, in cui si nega alla vittima persino il beneficio dell’evidenza, perché l’edificazione del mito è più solida di qualunque verità. Anzi, la trascende quando quest’ultima mette a rischio i vincoli della fratellanza tra vittima e carnefice, perché la punizione in certi rapporti nati storti è più dolce dell’amore stesso. Ma, in buona sintesi, come cambia la figura del Ciarlatano dal XVII al XXI secolo? Sostanzialmente, si passa dal peer- to- peer del Tartuffe – Orgone all’uno – contro– milioni dei follower social. Ma la realtà intima di quella figura ancestrale mefistofelica, che esiste dall’epoca in cui l’Uomo trovò la parola e stratificò nei secoli i suoi migliaia di vocabolari, è immortale come le sostanze psicotrope scoperte dagli avi nei funghi e nelle foglie delle piante.

Viene fuori come un ectoplasma dai fumi dei bracieri degli sciamani, che approfittano di coscienze confuse circondandole di ombre senza nomi che solo l’ipnosi sa governare. Quello, però, che oggi è improponibile del Tartuffe, a causa dei processi irreversibili di secolarizzazione, è la fascinazione di Orgone per quel finto uomo di fede di cui, addirittura, arriva a fare il suo erede universale per la santa virtù che solo lui riesce a vedere nella figura inquietante del ciarlatano. L’aspetto paradossale della negazione della verità, testimoniata da cognato, moglie, figli e domestica, è dato dalla costante double-face che la dialettica e la gestualità si portano dietro: il colpevole accusato è innocente agli occhi del suo giudice unico, se fa mostra di difendere chi lo accusa, flagellandosi il petto per le proprie colpe inducendo così nel giudicante la ferma convinzione che il giudicato sia stato diffamato, per venire poi assolto e addirittura premiato con la donazione di tutti i beni materiali a disposizione di chi è chiamato a giudicarlo.

Allora, non resta che la prova di San Tommaso: vedere con i propri occhi la realizzazione dell’atto infame dell’adulterio, rato ma non consumato, grazie all’intelligenza femminile che non perdona lo stupido ma non cede all’infame. Insomma, un’interessante attualizzazione del problema di sempre: credere ciecamente a coloro che non ci amano ma ci usano per i loro inquietanti fini. Per fortuna, poi, che Faust e il suo contratto non sempre la fanno franca precipitando talvolta in qualche botola o trappola infernale senza ritorno.


di Maurizio Bonanni