Leone Tolstoj, fai il bene sopporta il male

giovedì 28 ottobre 2021


Personaggi della civiltà

Potrebbe l’uomo vivere senza compiere il male? Potrebbe l’uomo vivere in pace, almeno tra gli uomini? E se il male esiste, potrebbe eliminarlo, e come? Paradossalmente le religioni sono pessimiste a proposito. E si comprende la ragione. Se l’uomo fosse buono la presenza di un Dio o degli Dei non avrebbe importanza, l’uomo basterebbe a se stesso. Se l’uomo è anche malvagio o del tutto malvagio un Dio o gli Dei sono necessari, per punirlo o per soccorrerlo. Vi sono concezioni complicate, l’uomo è buono per natura ma la società lo rende cattivo, l’uomo è nato buono dal creatore (Dio) ma diventa cattivo perché esercita male, al male la libertà, si tratta di concezioni complicate giacché non spiegano come mai esiste la possibilità della scelta del male se in natura tutto è buono o Dio ha fatto solo cose buone. Alcune spiegazioni non sono convincenti, ad esempio quella di ritenere la proprietà privata causa della malvagità, o di ritenere il sentimento della disuguaglianza all’origine del male.

Infatti, vale ripeterlo, se in Natura o da Dio veniva solo il bene non è concepibile che nascano la proprietà privata o il sentimento della disuguaglianza (inferiore/superiore). È assai problematico cogliere come mai nasca il male, se sia rimediabile, se sia esistito un uomo senza male. Prendiamo l’uomo per come è, un ente che compie ogni azione, talune a suo vantaggio ed a vantaggio altrui, talune a suo vantaggio e non a vantaggio altrui, talune a vantaggio altrui ma non a vantaggio proprio, talune né a vantaggio proprio né a vantaggio altrui. Chiamiamo “bene” le azioni a vantaggio proprio e altrui ma possiamo chiamare bene anche le azioni a solo nostro vantaggio, le azioni a solo vantaggio altrui, certo non è bene una azione contro il vantaggio nostro e altrui. Purtroppo è impossibile stabilire valori morali universali e certi. I popoli hanno concepito tutte le formulazioni, ma si esauriscono nel tempo, e sono difformi.

Non meno complessa è la concezione della reazione verso chi fa del male. In tempi lontani la formula era netta, a chi ti fa del male fai un male corrispettivo: Occhio per occhio, dente per dente. E ciò in forma personale o dei gruppi. Era un risarcimento fisico, vendicatore. Si ebbe poi un risarcimento monetario; si passò alla giustizia in mano allo Stato non più come vendetta privata. Si abolì il risarcimento corporale. Ma vi furono anche convinzioni che ritenevano, e ritengono, il perdono, la non avversione a chi ci fa del male, il ricevere il male sapendolo sorpassare, addirittura l’amare il nemico, modi di comportarsi opportuni. Vi è anche la convinzione che ad amare chi fa il male, il malvagio si redime. Non sono convinzioni identiche, pure se condividono la certezza che replicare al male con il male suscita una riproduzione infinita del male.

Limitiamoci alla realtà conoscibile senza tentare di cogliere se l’uomo nasce buono, se è la società a incattivirlo, se replicare al male con il male è un male, se amare il malvagio lo sana. Vediamo piuttosto quali concezioni hanno dominato a riguardo.

Il pacifismo è di variata attuazione. Vi è un pacifismo totale che rinuncia ad ogni reazione e accetta di soccombere pur di non rendere male per male. Il cristianesimo come venne vissuto da Cristo è tale, in effetti Cristo dichiarò: Chi di spada ferisce di spada perisce; affermò che occorre farsi dare uno schiaffo anche nella guancia non schiaffeggiata; che bisogna amare chi ci odia, ed Egli per primo non compì gesto contro chi lo colpiva e lo uccideva anzi all’estremo chiese al Padre (Dio) di perdonare coloro che lo sacrificavano “perché non sanno quello che fanno”, ma c’è da supporre che li avrebbe perdonati anche se si rendevano conto di fare il male. In effetti i cristiani all’inizio non accettavano di combattere, piuttosto il martirio che uccidere, neanche in guerra.

Era un atteggiamento presso che inesistente nell’Era non cristiana. Il guerriero costituiva una soggettività rilevantissima nell’antichità: una casta nell’Induismo, con il dovere di uccidere, per i Greci ed i romani non combattere significava non difendere la Patria, una vergogna forse più ignobile del parricidio o matricidio. Il non guerriero, colui che si arrendeva, fuggiva, riceveva disprezzo, esilio, morte ignominiosa. Con il tempo, e per ragioni insopprimibili, il cristianesimo mutò convinzione e stabilì che chi combatte per la fede ne ha libertà, addirittura obbligo, concepì il soldato cristiano, non soltanto per difendersi ma per estendere la fede, del resto nell’Islamismo la guerra a fini di propagazione religiosa era basilare, si che i cristiani sarebbero stati colpiti indifesi o avrebbero consentito agli altri la diffusione, quindi si ritenne, anche da parte cristiana, che non fosse male non soltanto difendersi ma ampliare combattendo la fede, una sorta di cristianesimo islamico (San Bernardo).

Il pacifismo assoluto, l’indifesa, il disarmo da una sola parte, sono - come scelta di un intero paese - rischiosi all’estremo. La certezza che se siamo indifesi non saremmo attaccati perché non faremmo paura, di non essere colpiti perché disarmati, quindi non nelle condizione di compiere violenza, si può capovolgere, potremmo venire assaliti appunto perché indifesi, disarmati. Che colui il quale non aggredisce non venga aggredito, è una ipotesi non accertata né accertabile per sempre. Che il buono, l’amorevole suscitino bontà e amorevolezza, è anch’essa opinione non universalizzabile nel tempo e nello spazio. D’altro canto vi sono situazioni in cui presso che naturalmente insorge la risposta violenta alla violenza. Situazioni così degenerate che non impedirle anche con la forza è impossibile, qualcosa insorge dentro l’uomo che non può rimanere inerte o soltanto offeso.

Il pacifismo assoluto, negatore anche della legittima difesa, è una convinzione difficilissima a mantenersi e con il pericolo di ottenere l’effetto opposto: consente al violento di spadroneggiare senza opposizione. In ogni caso sarebbe un comportamento di singoli o di gruppi, difficilmente un popolo riuscirebbe a sostenersi. Se lo facesse, sarà quel che sarà, è una scelta, e se ne avranno le conseguenze. Più consueta, la legittima difesa. Difendersi se aggrediti. Essa è riconosciuta presso che da tutte le società, sia nei rapporti privati, sia nei rapporti collettivi, internazionali. Anche in tal caso vi sono complessità: la proporzionalità tra offesa e difesa, le cause dell’offesa, per dire, tutte situazioni da valutare, in linea di massima la difesa legittimata dall’essere aggrediti è, con le circostanze da considerare, legittima, appunto.

Ma la non violenza, la disubbidienza civile, la non replica al male con il male, non costituiscono né pacifismo assoluto, né legittima difesa, vanno considerate attività con specifiche caratteristiche da precisare. Se un soldato si rifiuta di combattere (obiezione di coscienza) siamo in una situazione diversa dal non reagire al male o dalla legittima difesa, in tal caso si tratta di non volere fare il male (uccidere); così come la disubbidienza civile significa non rispettare una legge che si ritiene ingiusta, ad esempio non eseguire un ordine ritenuto ingiusto, o fare qualcosa che la legge proibisce ma che è considerato giusto fare. Ecco il terreno in cui si mossero Leone Tolstoj e Gandhi.

Leone Tolstoj (1828-1910)

Nato da una famiglia aristocratica, russo, conte, ritenuto uno dei maggiori narratori di ogni tempo, autore di romanzi celeberrimi, la vastissima epopea della lotta della Russia contro Napoleone, una sorte di Iliade moderna, la guerra patriottica, la guerra del popolo russo, Guerra e pace, e di altri famosi romanzi, Anna Karerina, storia di una donna dall’infelice matrimonio e dai tragici amori adulterini; I racconti di Sebastopoli, che riguardano la guerra della Russia contro la Turchia; Resurrezione, sul riscatto morale di una persona “peccatrice”; La potenza delle tenebre, dramma sulla rovina alla quale conduce la dissoluzione; La morte di Ivan Ilijc, la fine di un vecchio abbandonato da parte di chi dovrebbe amarlo; i testi biografici, i Diari. Solo un cenno. Ci interessa, ora, il Tolstoj che cerca di dare una risposta al male, al comportamento dell’uomo, il Tolstoj preoccupato della società e della morale, il Tolstoj che intende trovare il giusto modo di vivere.

Questa preoccupazione è nelle opere letterarie, vi dominano il contadino paziente, sopportatore, fidente in Dio, generoso, non passivo, non succube ma operosamente buono, ed anche qualche figura di aristocratico, sebbene, dicevo, l’errore, la malvagità, hanno tremendo campo in Tolstoj, lo scontro morale è basilare in Lui, come nel suo eccellente contemporaneo Fëdor Dostoevskij. Ma anche nella vita diretta, pratica Tolstoj vuole affermare le sue idee, è nettamente contro la guerra, è nettamente contro il capitalismo, vagheggia una sorta di comunità senza ricchezza personale, al punto da voler lasciare i suoi beni ai contadini con totale avversione della consorte, Sofia, giungendo ad un conflitto familiare che lo farà allontanare dalla famiglia, ormai ottantenne, morendo in una stazione ferroviaria, Astopovo. Anche contro la Chiesa Ortodossa ufficiale ebbe urto, e con lo stesso zarismo. Avversava i privilegi, la miseria del popolo. È il primo attestatore a livello mondiale della disobbedienza civile e della non resistenza violenta al male, del rifiuto della guerra fino a concepire il disarmo da una sola parte, fautore di una religiosità senza chiese, ispirandosi al Discorso della Montagna di Gesù. Fu vegetariano. La sua influenza sul pensiero “non violento” è totale, segnatamente su Gandhi.


di Antonio Saccà