La resistenza antisovietica in Europa orientale

lunedì 25 ottobre 2021


“La storia scalza gli eroi dai loro piedistalli”: così John Acton ha ricordato l’ineluttabilità di quei processi storici per cui vengono abbattuti quei regimi i quali sono stati creati per realizzare il sogno della libertà umana rivelandosi presto come l’incubo della più antiumana tirannia. Alla luce di ciò, allorquando tra fine ottobre e i primi di novembre del 2021 ricorrono i 65 anni della rivoluzione ungherese, appare opportuno ricordare quei tragici fatti, quelle convulse e sanguinose giornate di quanti si sono battuti per la propria sovranità nazionale, per la propria indipendenza, per la propria libertà, sebbene si debba necessariamente partire con ordine: dall’inizio.

Spesso la storiografia ritiene che la rivoluzione di Budapest del 1956 sia stata la prima forma di sollevazione popolare contro l’Impero sovietico, la prima occasione in cui si è manifestato il malessere delle popolazioni dei Paesi dell’Europa dell’Est avverso l’occupazione militare di un Paese straniero come l’Urss che nel 1989 condurrà all’implosione del sistema sovietico e dei suoi regimi satellite. Tuttavia così non è. I moti di resistenza contro l’Unione Sovietica sono molto più risalenti, almeno di più d’un decennio. Quando si pensa al periodo resistenziale le menti degli Italiani sono rinviate, quasi automaticamente, al periodo in cui, a partire dalla caduta del regime fascista nella caldissima estate del 1943, alcune migliaia di connazionali imbracciarono le armi per ingaggiare una lotta partigiana, di guerriglia, di sabotaggio contro le truppe germaniche d’occupazione in Italia. Attorno a quei fatti, è stata creata un’aura mitologica grazie a tanta parte di quella complice storiografia che, praticando una sorta di mitografia della resistenza, ne ha consacrato l’intangibilità e ne ha suggellato la purezza inconfutabile da tramandare nelle pagine della storia e della memoria repubblicane. Tuttavia, se per gli italiani il termine resistenza richiama alla mente la lotta contro gli artigli del nazional-socialismo, per le popolazioni della Lettonia, dell’Estonia, della Lituania, dell’Ucraina, della Romania, della Croazia, della Slovenia, dell’Albania il termine non può che ricordare la parimenti strenua lotta contro le fauci di un altro titano, cioè quello sovietico.

Le intenzioni di Mosca furono chiare fin dal principio, seppur per decenni la complicità ideologica di gran parte della storiografia europea in genere ed italiana in particolare abbia negato l’evidenza: la conquista del mondo per la creazione dell’escatologia marxista, cioè la liberazione definitiva del proletariato oppresso. Tuttavia, nonostante la rivoluzione d’ottobre o forse proprio per questo, fu chiaro che l’esperimento della rivoluzione non si sarebbe contagiato al proletariato degli altri Stati europei e mondiali e con il tempo, con l’avvento di Stalin soprattutto, si ritenne che occorresse esportare il comunismo con la forza, con la guerra, approfittando, magari, di una futura guerra fra gli Stati capitalistici. La Seconda guerra mondiale fu l’occasione perfetta: Stati borghesi come la Germania e l’Italia contro altri Stati borghesi come Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Mosca non poteva restare a guardare e cercò, ovviamente, di trarre il massimo profitto dalla situazione.

La Russia, però, stava stretta a Stalin che già dal 1939 aveva adocchiato fertili terre per l’espansione del socialismo reale: la Polonia, la triplice baltica e la Finlandia. Nell’autunno del 1939, la diplomazia sovietica si mise in moto convocando a Mosca i rappresentanti dei Governi della triplice baltica e della Repubblica finlandese. Dietro la scusa del consolidamento delle difese sovietiche Stalin avanzò pretese di carattere territoriale verso l’Estonia, la Lettonia e la Lituania che accettarono obtorto collo; la Finlandia, invece, che da sola si oppose al diktat di Stalin di cedere l’intera penisola della Carelia, pochi giorni dopo si ritrovò invasa dalle truppe sovietiche. La guerra proseguì con i fatti che tutti conoscono, i Tedeschi avanzarono fino alle porte di Mosca, ma vennero fermati dalla più grande risorsa bellica della Russia: il generale inverno. Dalla disfatta di Stalingrado del 1941-1942 e dalla disfatta dell’“Operazione Zitadelle” nel saliente di Kursk del 1943 i Tedeschi poterono solo ritirarsi e cedere terreno alle armate sovietiche.

Differentemente dalle truppe anglo-americane che restituivano la sovranità ai popoli che liberavano dal giogo nazista, i sovietici ne imponevano un altro: il proprio. Si andarono così costituendo gruppi e organizzazioni di partigiani contro l’invasione dell’Armata rossa. Il Paaste Komitee estone, l’Lnpa (Unione nazionale partigiani lettoni), l’Lgk (Comitato per la difesa lituana), l’Oun (Organizzazione dei nazionalisti ucraini), i Krizari croati: tutte organizzazioni partigiane che hanno rivolto tutte le loro energie e le loro risorse nella lotta contro il leviatano sovietico assiso sul trono della sua tirannide per schiacciare milioni di vite in tutta l’Europa orientale, proprio in nome della loro liberazione. Fu così che dal 1944 al 1956 in quasi tutti i Paesi “liberati” dall’Armata rossa si combatté una furiosa guerra antisovietica ed anticomunista che causò decine e decine di migliaia di morti ben prima dell’Ungheria nel ’56 e della primavera di Praga nel ’68.

Presto, tuttavia, tutti i moti di resistenza vennero soffocati dopo più d’un decennio di lotta all’ultimo sangue contro il “Padre dei Popoli”, Stalin. Spenti questi focolai però una fiammata di ritorno doveva ancora coinvolgere il gigante sovietico: era l’ora della Polonia e dell’Ungheria che nel 1956 decisero di sfidare il Cremlino, comprovando ciò che uno dei più strenui difensori della libertà contro il dispotismo e la tirannia del materialismo storico come Karl Popper ha scritto: “La libertà politica, la libertà dal dispotismo, è il più importante di tutti i valori politici. E dobbiamo esser sempre pronti a lottare per la libertà politica. La libertà può venir sempre perduta. Non ci è permesso di restare con le mani in mano, pensando che essa sia assicurata per sempre”.


di Aldo Rocco Vitale