mercoledì 20 ottobre 2021
Un grande della scuola, del cinema e della televisione
“Caro Francesco, non avrei mai pensato che un discepolo potesse andarsene prima del suo maestro quando spesso ho immaginato tutti i miei ex alunni rendere omaggio alle mie spoglie mortali. Quando Gigliola, al telefono, mi diede la ferale notizia, scoppiai a piangere come un bambino, io, il tuo vecchio e saggio maestro, che ti ha seguìto negli anni di liceo, i più belli e gratificanti della mia lunga carriera scolastica. Sei stato il migliore, il migliore fra i migliori, perché in quella classe c’erano il fior fiore degli studenti che a quell’epoca si potevano ancora trovare nella nostra scuola, e che poi si sono affermati nella vita come ottimi professionisti. La tua foto, singola accanto a quella di tutta la tua classe, spicca in mezzo alle tante altre appoggiate ai libri lungo gli scaffali della mia biblioteca e ogni mattina come entro nello studio, porgo idealmente il mio saluto a tutti gli amici che non sono più, quindi mi siedo sulla mia poltrona reclinabile, chiudo gli occhi e pensandoli e vedendoli nella mia mente stabilisco con loro un contatto ideale. Era da tempo che pensavo a una intervista immaginaria a te, anzi, ho sempre desiderato di scrivere su te un poemetto, come ho fatto con l’Orestiade, perché tu e Oreste Lionello siete stati i miei amici più cari”.
“Che tempi erano quelli, quando tu, come diceva Dante al suo maestro, Brunetto Latini, insegnavi “come l’uom s’eterna” a tutti i tuoi discepoli! Quando io vi entrai il Convitto Nazionale di Roma era nel mondo della scuola il fiore all’occhiello della Capitale, poiché si nutriva ancora di quei valori che il Ventennio aveva inculcato negli animi degli insegnanti e degli studenti. Anche mio padre mi raccontava che in quel periodo la scuola era un modello sotto tutti i punti di vista. L’insegnante e gli alunni erano dei “collaboratori”, come diceva Giovanni Gentile nella sua Riforma dell’educazione, e tu avevi per noi quella magna reverentia di cui parlava lui”.
“Di tuo padre ho ricordato in un mio libro, Avanti March!, una delle imprese memorabili, che durante la guerra meravigliarono il mondo intero. Tutti i giornali, anche stranieri, riportarono quell’avvenimento: “Il 23 gennaio del ’44 il guardiamarina Elio Scardamaglia, a bordo di un “maiale” (un siluro cavalcato dai sommozzatori italiani per incursioni nei porti nemici), ha affondato una corvetta inglese, provocando il panico e lo scompiglio nell’intera flotta, che si era messa a sparare all’impazzata, ritardando così le operazioni di sbarco. “La balena si è arenata” disse Churchill alla Camera dei Comuni, pensando che si trattasse non di un atto isolato ma di un’azione coordinata, come quelle dei mezzi di assalto segreti ad Alessandria d’Egitto e a Gibilterra”. Tu sei rimasto e rimarrai sempre il simbolo più alto del Convitto Nazionale di Roma”.
“È anche merito del Rettore-preside che allora lo dirigeva, Dante Affaticati, un educatore autentico e consapevole del ruolo fondamentale che svolgeva nella società. I convittori indossavano la divisa, e questo era già un fatto distintivo e sostanziale, non una pura formalità. Come sostanziale era il contributo che il Rettore stesso portava nella scuola facendo il suo giro d’ispezione nelle aule scolastiche, assistendo alle lezioni e interrogando gli alunni. “Professore, non si scomodi”, diceva nell’entrare, “continui pure la sua lezione: io vado a sedermi là in fondo”. E andava a prendere posto in uno degli ultimi banchi, per non mettere troppo in imbarazzo l’insegnante”.
“Quando sfoglio il ricco dossier che mi consegnaste alla nostra ultima cena del 30 ottobre 1993 provo una nostalgia indicibile. C’è anche una tua pagina di saluto ai compagni ritrovati: “Carissimi amici, dove siete finiti? O dove sono finito io per voi, dall’ultima volta che ci siamo salutati sfilando davanti alla garitta di Colombi? Tutti voi avete ancora per me dai quindici ai diciassette anni, e siete ben presenti in un settore speciale della memoria. Basta aprire uno spiraglio e tutto ritorna nitido come se il tempo non fosse passato. Come quella volta che il prof. Scaffidi si accorse che Gigi Saggio dormiva saporitamente sul banco e il bidello, Minati, faticò non poco a svegliarlo. È il privilegio del ricordo. Anche dopo che ci saremo rivisti, anche dopo il confronto fra come eravamo e come siamo, torneremo tutti ‘compagni di scuola”. E Corrado Demofonti continuerà ad intonare per noi:
Quindici uomini sulla cassa del morto
io-ho-ho, e una bottiglia di rum!
La bottiglia e il demonio han pensato al resto
io-ho-ho, e una bottiglia di rum!”.
“Le nostre abitazioni erano vicinissime e i tuoi genitori m’invitavano spesso insieme con mia moglie. Ricordo come se fosse ieri le belle discussioni che facevamo io, tuo padre e tuo nonno, un uomo eccezionale. Fu lui che mi fece conoscere Giuseppe Ungaretti alla presentazione di un suo libro in Campidoglio, e io, che allora lo facevo anche per la Rai, lo intervistai, e lui mi diede il suo libro con una dedica che conservo come una reliquia. Un altro ricordo è quello della nostra gita scolastica in Grecia, della quale mi viene in mente spesso una tua parola in greco moderno, del quale avevo dato a tutta la classe, alcune frasi. Quando entravamo in un negozio per comprare qualche souvenir tu, indicando l’oggetto, dicevi sempre “costìzi?”, che vuol dire Quanto costa?”.
“Fu una gita memorabile, anche per la nave su cui c’imbarcammo, che era piuttosto malandata e non ci dava tanta sicurezza”.
“I tuoi interventi nel corso delle mie lezioni, mentre spiegavo questo o quel poeta, passeggiando fra voi (raramente, infatti, mi sedevo in cattedra) erano sempre seguìti con attenzione e interesse da tutta la classe. A volte, tali erano la tua preparazione e la tua oratoria, che, come in gara con me, alzavi la mano e mi dicevi: “Professore, posso continuare io?”. E sviluppavi i concetti che io avevo appena espresso, con una precisione e una chiarezza davvero sorprendenti. Dialogavamo, come facevano Socrate e Platone coi loro discepoli. Tu eri un grande affabulatore, ma senza ostentazione, sempre pronto e disponibile con tutti. Avevi già la stoffa dello sceneggiatore, ed eri tanto avanti nelle tue conoscenze, umanistiche e scientifiche, che verso la fine del secondo anno di liceo ti suggerii di fare il salto e sostenere a settembre l’esame di maturità. Durante l’estate venivi da me, ormai come privato, “per attingere direttamente – così dicevi – alla fonte della sapienza”. E anche allora, mentre io andavo illustrandoti il pensiero e la poetica di Pascoli, di Leopardi o di d’Annunzio, a un certo punto m’interrompevi dicendo professore, ho capito. Se permette, continuo io”.
“Le tue non erano lezioni, erano conversazioni, in cui affrontavi anche temi e problemi della vita, come poi facesti, in privato, con Lalli e con Gigliola, mio fratello e mia sorella, e più tardi con Cicci, la mia futura sposa, con mio figlio Federico e con la figlia di Gigliola. Due generazioni”.
“Di Federico, insieme a Davide, l’ultimo figlio di Oreste Lionello, conservo ancora, bene in vista su uno degli scaffali, un foglietto in cui entrambi mi ringraziano per l’aiuto che gli diedi agli esami di maturità: “Tu hai acceso in noi un amore infinito per la Letteratura e per l’Arte, una elevata concezione della vita e una forte ansia dell’Assoluto. Sei un Maestro di vita, oltre che un grande poeta”. Sono stati i tre anni più belli non soltanto della mia carriera di insegnante e di una classe insuperabile ma oserei dire di tutte le scuole italiane, tanto che, ricordando un premio analogo che ricevetti al Ginnasio Vittorio Emanuele II di Palermo, avevo chiesto al Rettore di darti una medaglia d’argento come il migliore alunno del Convitto. Ma simili iniziative non si usavano allora nella scuola, quando è giusto e doveroso premiare i giovani che sono di esempio e di sprone agli altri”.
“Veramente la medaglia dovevano darla anche a te, visto che i tuoi colleghi ed i Rettori, passeggiando con te nel corridoio durante la ricreazione, tenendoti a braccetto, ti chiamavano Maestro, invece di professore”.
“Quando diventasti sceneggiatore, firmando diversi film di genere, fra cui spaghetti western, e poi produttore televisivo, cinematografico e regista, specialmente nella fiction della Rai, il mio affetto per te salì alle stelle. Venivi a casa mia e poiché anch’io scrivevo sceneggiati radiofonici per la Rai, ideasti soggetti che abbozzammo insieme, e che però rimasero incompiuti. Di tutti i film che hai sceneggiato con Bud Spencer e Terence Hill non ne ho perso nemmeno uno, sia al cinema che alla televisione, dei quali ricordo in particolare Dio perdona, io no!, Lo chiamavano Trinità, Io sto con gli ippopotami, Altrimenti ci arrabbiamo, I due superpiedi quasi piatti. Se tutti dobbiamo molto a quei due grandi attori che ci hanno fatto ridere e divertire con i loro film, ma ci hanno anche fatto riflettere e pensare, molto dobbiamo anche a te. Sei stato un gran maestro, con le tue battute e con le tue trovate”.
“Io ero molto amico di Terence Hill, ma, come si dice “non è tutt’oro quello che luccica”, così la sua vita privata non è stata sempre facile. Ha avuto due figli da Lori Zwicklbauer, che gli è stata sempre vicina e l’ha aiutato molto. Uno di loro, Ross, fu vittima di un incidente stradale a Stockbridge nel 1990, Quella tragedia causò in Terence una grande depressione. Aveva girato con lui “Renegade-Un osso troppo duro”, e stava preparando il personaggio di Billy the Kid per la serie tv Lucky Luke. La morte del figlio lo sconvolse a tal punto che non recitò per 10 anni, finché nel 2000 tornò sugli schermi con la fiction Don Matteo. Mandagli un saluto, anche da parte mia”.
Caro Francesco, t’ho voluto bene,
ed ora te ne voglio anche di più,
quasi avessi il tuo sangue nelle vene.
Avevi tante e nobili virtù,
come agli uomini saggi si conviene,
e un saggio, amico mio, sei stato tu.
Mite, spontaneo, senza fare scene
per spiccare sugli altri ancor di più,
tu sei stato il prototipo indiscusso
e incontrastato della “buona scuola”,
un alunno imbattibile, inconcusso.
Mai t’uscì dalla bocca una parola
fuori posto. Col tuo prezioso influsso
tutta quanta la classe ha fatto scuola.
17 ottobre 2010
di Mario Scaffidi Abbate