venerdì 1 ottobre 2021
Un bel dilemma definire il nucleo della libertà, dell’essere liberi, su tema fior di filosofi di tutte le epoche si sono lambiccati la testa: semplice concludere che spesso si riduca a scegliere tra ciò che si preferisce fare e quel che si deve fare. Perché il problema non risiede nei comportamenti, bensì nell’individuare i principi etici universali che indirizzano l’agire umano e chiariscono quel che merita o non merita di essere realizzato, come già insegnava Socrate, contrastando le tesi sofiste troppo legate alla concezione della polis. Il punto è che allontanandosi sempre più dalla ricerca svincolata da interferenze culturali di matrice fideistica, il concetto di libertà ha dovuto fare i conti, sovente, con la presenza di una onnipresente divinità che ha rovesciato i termini dell’analisi, ove libero è diventato colui che si abbandona alla volontà superiore rinunciando, in ragione del peccato e della salvezza, al personale cammino di conoscenza, attraverso i sentieri tracciati dalla ragione e spirito. È allora semplicistico accettare le tesi dei teologi medievali secondo le quali l’uomo poteva definirsi libero quando nulla si opponeva alla messa in atto di ciò che aveva pensato di scegliere e fare.
Senza addentraci nei meandri di un Illuminismo per molti aspetti controverso e contraddittorio, mi limito a ricordare il principio kantiano dell’individuo che, ancorché condizionato dalla natura, resta libero e responsabile nel campo delle predilezioni umane e dove la vera libertà consiste nel “volere ciò che si deve”, nel senso dei propri archetipi che si palesano nell’imperativo categorico della ragion pratica. Ma persino Kant, conteso tra fede razionale ed etica pietista, era costretto ad ammettere che il “voler ciò che si deve” potrebbe essere stato previsto da un copione ove le scelte “libere” dell’uomo rischiano di ridursi alla mera esecuzione di un progetto preordinato. Così, la libertà assoluta e il libero arbitrio restano una consapevole utopia: agire pensando di essere liberi, coscienti , quando probabilmente non lo siamo.
Nel nostro attuale quotidiano, si è fortificata l’illusione che la vera libertà consista nell’affidarsi alla scienza. Invece, i suoi eccessi, l’uso indiscriminato delle nuove scoperte con fini indefiniti o aberranti, l’impotenza di fronte ad accadimenti sconvolgenti hanno dimostrato e dimostrano l’assurdità della tesi che va lentamente, inesorabilmente trascinando l’individuo e la società verso l’autodistruzione. Il quesito di partenza resta ancora insoluto, ma proviamo ad abbandonare le strade finora battute e accostarci al pensiero iniziatico, generalmente giudicato non “alternativo”, bensì sospetto e pericoloso: epiteti che calzano a pennello, per il fatto che questo pensiero, sintesi e recupero delle antiche sapienze, non è omologabile o asservibile al disegno di un’umanità, in perenne stato di sonnolente depressione. Partiamo dall’idea dell’agire secondo volontà e coscienza: la libertà individuale si esplicherebbe così nell’ambito della legge universalmente accettata. La legge, se limita e regola la libertà, combatte l’abuso, la prevaricazione, l’ingiustizia, pone ogni uomo sullo stesso piano. Tutto giusto se non fosse che la “legge universale” non va intesa come una sorta di patto sottoscritto da tutti gli uomini affratellati dalla ragione, bensì dovrebbero valere le regole che l’uomo scopre universali scendendo nella profondità del sé, dove la ragione non svolge il ruolo di “metodo”, ma di strumento per selezionare la validità o meno degli strumenti da adoperare per tale viaggio nell’interiore soggettivo. La libertà non è allora un mero elemento fondante le società umane, ma una conquista: dal “patto” nasce il brocardo “la libertà è compiere tutto ciò che le legge non vieta espressamente”; da esso si origina il principio: “la libertà individuale finisce dove inizia quella altrui”. Dalla conquista sgorga il “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” e, soprattutto, il “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”.
La libertà coincide pertanto con la consapevolezza, la conoscenza, l’apprensione della verità. Certezza di vivere in una realtà deformata dalla lente del dualismo, di diversità contrapposte, di pregiudizi, dogmi, categorie bianco/nero, luce/tenebra, buono/cattivo, giusto/sbagliato, bello/brutto, radicate nell’anima dell’uomo moderno, come metalli pesanti che l’avvelenano. Una nuova visione del reale, in cui persino lo spazio e il tempo vengono ricondotti a semplici mezzi di misurazione con cui l’uomo scandisce l’ambiente circostante e il susseguirsi delle mutazioni delle proprie fattezze. La verità che lentamente si acquisisce libera l’io interiore, dalla schiavitù della percezione sensoriale, lascia che lo spirito conduca all’intelletto gli “universalia” presenti nella coscienza, al fine di decifrarli e tradurli in linee guida etiche dell’esistenza sociale di ogni giorno. Questo era in fondo il grande insegnamento di Socrate, espresso con le parole “Conosci te stesso”, che ritroviamo incise sulla facciata del Tempio di Apollo a Delfi. Questa la profonda dottrina offerta dalle scuole iniziatiche, eredi di antichi patrimoni sapienziali tramite esse sopravvissuti ai millenni e salvate dall’oblio della contro cultura imperante.
Ai tempi di oggi che senso dare alla libertà?
Nelle nostre società individualiste, sembra esser diventata un privilegio elitario da cui l’uomo comune è escluso. Il suo compito etico ha ceduto il passo alla funzione egemonica che si estrinseca in decisioni politiche ed economiche, a livelli che travalicano i confini nazionali, restando sganciate dalla realtà che da tutelare. Non voglio entrare nel campo dell’attuale emergenza, le cui restrizioni e misure di freno alla diffusione virale si sono dimostrate in gran parte inadatte e, a tratti, lesive dei diritti fondamentali della persona. Il discorso è lungo e rischia di sfociare in sterili diatribe di sapore complottista. E allorché sui media gli opinionisti si danno continuamente battaglia a colpi di articoli costituzionali, non parlando delle norme sovranazionali immediatamente esecutive nei singoli Stati. Penso agli scrittori politici dei secoli XVI e XVII che si opposero all’assolutismo etico, sostenendo il diritto a ribellarsi contro ogni forma di che coercizione alle libere scelte dei cittadini. La disobbedienza alla legge che osteggia la coscienza non è nuova nella storia umana, se persino i regolamenti militari ipotizzano la facoltà del soldato di non eseguire l’ordine ingiusto, accettandone tutte le conseguenze, estreme e drammatiche. Se si comprende che la libertà è un valore della coscienza profonda, capace di vivificare la ragione: l’uomo libero tale resterà anche con i ceppi alle caviglie; sicuramente resta un valore che, difeso a ogni costo, dona alla nostra breve esistenza su questo martoriato pianeta un senso e uno scopo sempre più solido e indomabile.
di Pierpaola Meledandri