martedì 31 agosto 2021
Analisi fenomenologica di un conflitto sociale
Essere-Corpo vs Avere-un-corpo
Il feroce conflitto interiore sull’atteggiamento da adottare nei confronti della pandemia, si è trasferito alla società, è divenuto un conflitto sociale, e si sta espandendo sempre di più. È una divisione tra due forze che permeano la nostra stessa vita, e si combattono aspramente già dentro ognuno di noi. Si tratta del conflitto tra chi asseconda le proprie paure e, di conseguenza, approva la smania governativa che cavalca questa paura, ed è fatta di divieti, controlli e sorveglianza su dei corpi-oggetto e chi invece vuole vincere i propri timori e disapprova chi li alimenta. A ben guardare, infatti, tutti i divieti e obblighi riguardano il corpo: si nascondono le bocche, si impediscono le strette di mano – persino il tradizionale scambio del segno di pace, in chiesa, è stato sospeso, sine die – si vietano il nuoto e gli sport di squadra e di contatto (arti marziali, lotta, pugilato), si limitano contatti ed effusioni all’aperto o al chiuso. Si vorrebbe persino regolare gli atti sessuali. Il dialogo naturale è ostacolato, fino al punto di non consentire a quei disabili dell’udito che hanno imparato a farlo, di leggere le labbra di chi si rivolge loro.
Dall’altra parte c’è invece chi, nonostante la paura, sceglie di conviverci, e propone semplicemente di tornare alla vita e alle libertà – normali e naturali – che precedono la pandemia di Covid, nella quale l’azione sociale di corpi-soggetto può tornare compiutamente a essere protagonista. Abbiamo visto come la fenomenologia, lungi dal voler ripristinare una tradizione medievale volta all’unità dell’individuo nel cosmo, intenda giungere al corpo-soggetto, ma non prima di averlo reso come fenomeno. “Io e l’altro non possiamo agire, e interagire, senza smettere di essere-corpo” in una sintesi di azione e situazione, che è la condizione, per dirla con Erving Goffman, per la quale il corpo è colto nel momento in cui stabilisce una interazione con altri corpi. Ne discende, in particolare, che io sono-corpo per-me, l’altro-è-corpo per-sé; e, a seguire, io ho-un-corpo per-l’altro, l’altro-ha-un-corpo per-me. Il corpo-soggetto, dunque, nel momento in cui fa esperienza diretta del mondo, la fa partendo da un insieme di chiare propriocezioni che si combinano nella percezione sintetica dell’essere-corpo. Quel corpo che, con i sensi, le sue memorie e le sue conoscenze, è il nostro punto di vista sul mondo.
Allo stesso tempo, però, in quanto corpo, può essere un oggetto, di percezione, di azione, o un oggetto scientifico, al pari di tutti gli altri corpi. Tutti, dunque, in definitiva siamo-corpo e, contemporaneamente, abbiamo-un- corpo. La dicotomia e il conflitto, psicologico e sociale, venuto drammaticamente fuori con la pandemia, nasce proprio da qui. I due campi nei quali la società è divisa deve poi tener conto di una palude umana – in tutto simile al gruppo omonimo che fu così battezzato durante l’Assemblea Costituente del 1789 – ovvero di quella massa di individui che, inconsapevolmente, segue solo la corrente del mondo, i trend globali o quello che sente essere il senso comune. La massa sta facendo ciò, salvo assumerlo come propria e autonoma libera scelta.
Questa sorta di “conformismo” della massa oggi si manifesta ampiamente, anche se il senso comune, in queste drammatiche settimane, ha uno statuto di emergenza, medicalizzato, volto a ridurre il rischio, e ispirato a raggiungere una impossibile immunità. Esso appare, dunque, progressivamente lontano da un reale “buon senso” e sembra anzi che proprio con il buon senso abbia ingaggiato, forse come mai era successo finora nella storia umana, una battaglia vera e propria. È così che, a ben vedere, le contraddizioni logiche e analogiche della narrativa corrente – contraddizioni che si sono poi riflesse nel livello politico e decisionale – sono state in questi ultimi 18 mesi tante e tali che il conflitto tra “senso comune” e “buon senso” andrebbe assunto come un dato del problema; senza perciò dilungarsi nella descrizione e nella dimostrazione di tutti quei fatti che con la logica e il buon senso sono in aperto conflitto. Appare chiaro come – specie dal punto di vista mediatico – si sia affermata una visione univoca che ha cancellato, insieme al pluralismo e alla polifonia sociale, la dimensione naturale del corpo-soggetto, aprendo la strada, inevitabilmente, a un dominio del falso, di un giornalismo dove univocità, incoerenza e illogicità sfociano continuamente e ovviamente nella menzogna. E questo falso, questa menzogna accostano la “narrativa istituzionale della pandemia” a quelle che sempre, a senso unico, sono adottate dai regimi totalitari. Ci sono due libri fondamentali che, nel momento in cui descrivono proprio i meccanismi di reificazione – in ambienti nei quali, è la percezione dell’avere-un-corpo a prevalere – spiegano, a specchio, anche il dominio della menzogna. Si tratta dell’Io Diviso di R. D. Laing, psicoanalista scozzese, e Se questo é un uomo di Primo Levi.
L’Io diviso è uno studio di psichiatria esistenziale. Fenomenologicamente, Laing ci fa entrare nelle percezioni e nella vita delle personalità schizoidi e schizofreniche, le seconde in continuità psicotica con le prime, affette da nevrosi. Laing, ci mostra cioè come uno schizofrenico si senta sostanzialmente disembodied, disincarnato, cioè senza una percezione netta del proprio corpo. Se come questo accada è ancora un argomento corrente di studio, la percezione di essere-fuori-dal-corpo – o di essere vuoti – è un fenomeno acquisito dalla scienza psichiatrica, e fa sì che l’interazione del corpo dello schizofrenico con un mondo fatto di interazioni tra corpi, soggetti e situazioni, si verifica senza che lo schizofrenico ne abbia una piena e chiara coscienza. Il risultato di questa incoscienza è una interazione e uno scambio con gli altri che non consentono di nutrire la propria corporeità, che lasciano fuori le emozioni e comportano una totale distorsione del senso e del significato della vita. In tal modo viene impedita l’interiorizzazione dell’esperienza soggettiva in una sintesi che possa consentire al soggetto la costruzione di un suo “progetto” vitale aperto sul mondo.
Laing distingue tra un Io corporeo e Io incorporeo. Nella persona normale essi combaciano. Nel soggetto schizofrenico non possono, nello schizoide lo fanno solo a tratti. L’Io incorporeo resta confinato in una zona che non coinvolge la sua corporeità, la sua motricità, la sua azione “incarnata”. Questa dissociazione della percezione ha gravi conseguenze nella relazione, nella crescita e nella socializzazione – oltre che nell’apprendimento – di questi soggetti. Il meccanismo dell’individuo schizofrenico disincarnato è, non a caso, spiegato da Laing come sistema del Falso-Io o Falso-Sé. Il paradosso è che se una delle sofferenze più acute provate dallo schizofrenico è il meccanismo del sentirsi reificato dagli altri, dai familiari, dai suoi medici e psichiatri, reificare è anche l’arma che egli ha a disposizione nei confronti del mondo per difendersi. Primo Levi, in pagine drammatiche e bellissime, accenna alla stessa dissociazione Io-Corpo, riguardo ai prigionieri dei campi di concentramento nazisti e a come, cioè, l’elemento pressante della durissima realtà di Auschwitz, portasse gli internati a uscire dal corpo, e a separare l’io Incorporeo dal Corpo, sottoposto a umiliazioni e condizioni insostenibili. Dal Corpo, soggetto a vessazioni, a ritmi massacranti, a stravolgimento delle abitudini, dell’igiene, dell’alimentazione, dell’espletamento dei bisogni e delle condizioni elementari di vita, l’internato veniva portato a separarsi per poter sopravvivere. Tale e tanta era la pressione che una realtà assoluta, asfissiante, drammatica e violenta esercitava sui corpi, che i loro possessori erano obbligati a uscirne, a non volerlo percepire, utilizzando ogni possibile strategia mentale. Nel frattempo, le autorità del campo esercitavano sugli internati un dominio di menzogne, di dissimulazioni ed omertà che risultano insuperate. Anche nei racconti delle vittime di violenza e stupro – ad esempio, le vittime di efferata violenza di gruppo – si riscontrano simili cenni di una strategia di uscita dal corpo per poter sopravvivere a ore di atroce sofferenza.
Anche l’ordinaria e quotidiana realtà – a seconda delle situazioni sociali, delle percezioni vissute dai soggetti che dipendono dalla loro sensibilità – può esercitare sulle persone delle pressioni che, in alcuni casi, le portano a preferire un distacco dalle sensazioni e dalle emozioni sgradevoli che il corpo vive, a causa del sopravvenire di specifici eventi, anche senza che si verifichino su di essi episodi di violenza o sopraffazione. È il caso delle emergenze e degli Stati di calamità. Anthony Giddens, importante sociologo britannico, nei suoi studi sul Sé, psichico e sociale, e sull’identità, riprende sia l’esperienza degli internati, sia l’Io Diviso di Laing, per poter uniformare sociologicamente il ragionamento e considerare l’embodiment del soggetto una vera e propria dimensione sociale, e il disembodiment – dovuta a realtà troppo stressanti e troppo pressanti – una condizione patologica della Modernità. Abbiamo dunque visto come, in frangenti storici particolari, nei quali la normalità sia stata abrogata, si assume se stessi come corpo-oggetto, con il rischio di reificare l’altro da sé. In questi frangenti l’individuo sceglie deliberatamente di divenire un mero oggetto del potere, piuttosto che darsi da fare per riprendere la propria vita normale e tornare alla condizione naturale di corpo-soggetto.
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(****) Leggi la quarta parte
di Andrea Andy Indie De Angelis