Falsi, autentici e qualche fantasma

giovedì 1 luglio 2021


L’italiano medio è, lo si sa da sempre, di volta in volta commissario tecnico della Nazionale di calcio, ingegnere edile, politologo, stratega, in tempi più recenti virologo, ora esperto d’arte. Ovviamente la maggior parte delle volte non è nulla di tutto questo ma parla, scrive e afferma con sicumera impareggiabile sulla base di scarne informazioni avute in Rete o chissà dove su materie che a stento ha sentito nominare. Uno dei temi caldi di questi giorni è appunto la “falsificazione delle opere d’arte”, argomento dalla trattatistica estremamente ardua, complessa e difficile e che presenta un tale e quasi infinito numero di sfaccettature da renderlo il vero e proprio campo minato per qualsiasi critico, esperto e comunque studioso di quella variegata materia appunto che è l’arte. Senza entrare in merito alle recenti vicende su presunti falsi, cosa che riguarda sempre la magistratura e gli organi incaricati, forse sarebbe il momento di fare un minimo di luce su tale tema, con una buona dose di ironia. Infatti, non può non tornarmi in mente un piccolo, splendido gioiello della cinematografia fantastica italiana, quel “Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli, una commedia agrodolce del 1961, dove a farla da gigante mattatore è – come sempre – la figura fantasmatica di un pittore morto sul rogo per eresia, tra il Sedicesimo e il Diciassettesimo secolo, di nome Giovan Battista Villari detto Il Caparra, magistralmente interpretato da Vittorio Gassman.

In breve, al fantasma del Caparra viene commissionata dagli altri fantasmi che non vogliono essere sfrattati dall’antica dimora ove stanno, al centro di Roma, l’esecuzione di un affresco che, come tale, bloccherebbe la vendita del palazzo signorile e il suo abbattimento successivo. Tuttavia il dipinto viene autenticato da un critico d’arte (prezzolato) come opera non dello stesso Villari, bensì del suo peggior nemico, ovvero di Michelangelo Merisi, meglio noto come il Caravaggio. Il Caparra rabbioso, fa dunque inciampare il critico e lo fa cadere dalle scale, provocandogli la frattura di una gamba, ma comunque l’edificio non può più essere demolito perché tutelato dalle belle arti e dunque i fantasmi hanno vinto e possono continuare a starvi. Quindi tutto questo ci fa sorridere se si pensa a quanto può essere dubbia o posta in dubbio, qualsiasi affermazione fatta in campo artistico, dove l’errore è sin troppo spesso in agguato. Quando poi entrano in gioco fattori esterni e imponderabili, il tutto diviene un temporale in un bicchiere d’acqua. Questo accade soprattutto nell’arte contemporanea – non chiamatela moderna che è altra cosa – laddove quindi la contraffazione è più facile da ottenersi. Infatti, se è molto arduo riprodurre e spacciare come originale una tavola del Quattrocento anche perché la tecnologia oggi ci viene in costante aiuto, non lo è altrettanto sull’arte più vicina a noi e così si riesce a “giocare” su opere che esistono su supporti attuali che sono soprattutto quelli del secondo Novecento.

Ma quando l’opera non esiste materialmente ed è quindi soltanto un pensiero, un’idea, un concetto? Il campo minato qui si fa ancora più fitto, perché ogni cosa può al tempo stesso essere o non essere, quasi secondo il “paradosso del gatto di Schrödinger” e in barba all’insonne, estenuato e pallido principe danese. Su questo ristretto spazio avvengono dunque la maggior parte dei conflitti che interessano l’autenticità delle opere d’arte. Quante parole vane quindi, quante illazioni che ci riportano a pensare a quanto poco poi l’uomo comune sappia d’arte, a tutti coloro che immaginano la “Gioconda” come una grande tela che possa essere tagliata e sottratta così al Louvre, portandola via arrotolata sotto al braccio, tanto più che sarebbe italiana. Insomma, tutta l’arte è ancora oggi troppo circonfusa di un alone di incomprensione e di faciloneria che contribuisce soltanto a far sì che i disonesti – che esistono – sembrino sopravanzare sulle persone dabbene. Poi spesso entrano in gioco la presunzione, la convinzione e a volte una certa faciloneria con la quale si trattano le opere, tra possessori troppe volte convinti di avere un inedito di Raffaello, quando invece posseggono soltanto una “crosta” di qualche ignoto e altre amenità simili. Tutto questo favorisce certo le speculazioni, più o meno ardite, perché poi si ritrovano opposte critiche e contrari riconoscimenti e differenti autenticazioni, a tal punto da far dubitare anche della realtà.

I “vecchi” quali il sottoscritto, appartenenti alla “vecchia scuola” di quella strana disciplina metà umanistica e metà scientifica che è la Storia dell’arte, sanno bene – o almeno dovrebbero – che la capacità di leggere e dedurre la veridicità di un’opera d’arte si dovrebbe basare sulla “conoscenza” della stessa, del suo autore e di tutto quanto gravita intorno. Quasi un alone di mistica preveggenza supportato però da fatti concreti, la “conoscenza” è una forma di intuizione superiore e alta che non è esente da errori certo, ma che se ben posseduta sbaglia molto meno di qualsiasi ragionamento sterile e algidamente scientifico. Insomma, per capire se si ha davanti un’opera d’arte, oltre a una buona dose di materia grigia ci vogliono soprattutto un cuore e un’anima. E allora, lasciamo stare questi giorni affannati e confusi, dove la politica cerca di dominare il sapere, dove la cupidigia di pochissimi brama ancor più potere sugli altri, in un gioco dove ogni cosa vera finisce per portare su di sé il dubbio del falso e qualcosa di falso alla fine resta come autentico, chissà dove, semidimenticato in quale atelier o in qualche mostra di provincia. L’arte dovrebbe essere il luogo della perfetta libertà – che non significa “faccio ciò che mi pare” – dove il pensiero si può esprimere e dire con l’immagine ciò che a volte, con le parole non può. Facciamoci su tutto questo gran vociare, una sonora risata come quella del Caparra appunto che definiva “quello scarparo” l’odiato Caravaggio e “sagrestano” Guido Reni, lui allievo del suo riverito maestro, il Cavalier d’Arpino, saranno coloro che verranno a dirci cosa resterà di tanto.


di Dalmazio Frau