Opinioni a confronto: la Festa della Repubblica

venerdì 4 giugno 2021


Caro Renato, ogni anno quando arriva il 2 giugno mi viene in mente l’esordio della nostra Costituzione, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Ho già scritto un articolo sull’argomento, pubblicato da l’Opinione, ma nel 2013, così ho pensato di aggiornarlo, parlando insieme a te”.

“Sono d’accordo, anche perché oggi il lavoro, quello pubblico, col Coronavirus va diminuendo sempre di più, per cui l’Italia sul lavoro più che fondata mi sembra sfondata, nel senso di sfasciata”.

Ma tutta la frase sul piano grammaticale non è corretta perché l’Italia non è una Repubblica (con la R maiuscola per giunta) ma una nazione, una penisola, o un’espressione geografica, come la definiva Metternich: è lo Stato italiano che è una repubblica (con la r minuscola), intendendo per Stato (con la S maiuscola) una Istituzione (con la I maiuscola) di carattere politico, un tipo di Governo, anche dittatoriale, che esercita sul popolo la propria sovranità. La Costituzione, però, da parte sua, dev’essere la voce del popolo, non un atto notarile, freddo come un contratto di compravendita, o deve almeno contenere un soffio spirituale che la animi e la sorregga, e che, possibilmente, faccia commuovere e inorgoglire gli animi”.

“Al di là di queste prerogative, che non sembra di possedere, la nostra Carta presenta non poche inesattezze formali, che, pur comprensibili per i tempi e l’urgenza in cui fu stilata, andrebbero eliminate. Allora si disse che era provvisoria, come l’Inno di Mameli, ma purtroppo in Italia il provvisorio è definitivo”.

Nella nostra Costituzione la parola Italia ricorre solo due volte: nell’articolo 1 (L’Italia è una Repubblica) e nell’articolo 11 (L’Italia ripudia la guerra). Anche la parola Nazione ricorre due volte (articoli 9 e 67), mentre la parola Patria compare una sola volta (articolo 52). Lo Stato compare 6 volte. Per il resto dilaga la Repubblica. La quale, oltre che nell’articolo 1, fa la sua comparsa nelle seguenti espressioni, La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili’ (2); ‘La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro’(4); La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali (5); La Repubblica tutela le minoranze linguistiche (6); La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura (9); La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso (12), dove sarebbe stato più corretto dire La bandiera della repubblica italia­na è il tricolore verde, bianco e rosso. La parola Repubblica segue poi negli articoli 29, 31, 32, 35, 37, 45, 47, sino all’articolo 114 e fra le disposizioni transitorie e finali.

“A proposito del lavoro, dire come un imperativo categorico che l’Italia è fondata sul lavoro significa che tutti gli italiani sono e devono essere tout court un popolo di lavoratori, ma anche scrivere è un lavoro, anche il solo pensare, che per Gentile è un atto puro. Ma poi, più che sul lavoro l’Italia doveva essere fondata su altre cose, sugli ideali e sul sangue di chi, quella Repubblica, l’aveva sognata, lottando per la sua realizzazione e provocando la caduta della monarchia. La natura repubblicana dello Stato italiano, infatti, discende da un referendum popolare, e perciò l’Assemblea costituente non aveva il potere di decidere sulla forma repubblicana (dello Stato italiano). Non è una questione da poco”.

In definitiva l’espressione corretta dell’articolo 1 sarebbe stata lo Stato italiano è una Repubblica democratica la cui sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Dopo, semmai, si poteva accennare al lavoro. Il quale, se da un lato è riconosciuto come un diritto, dall’altro è imposto come un dovere, visto che in uno stesso articolo (4), dopo aver definito il lavoro un diritto, la Carta dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Da ciò si ricava che un cittadino italiano non è libero di non lavorare. Il lavoro è il fulcro intorno al quale ruota la Repubblica italiana, anche sotto il profilo lessicale, visto che il lavoro, i lavoratori e le lavoratrici (quasi sempre in compagnia dei loro sacrosanti diritti) compaiono una quindicina di volte. E ciò rafforza il detto chi non lavora non mangia. Sono tante nella nostra Costituzione le incertezze semantiche relative a termini di grande spessore concettuale. Il testo, infatti, se da un lato proclama solennemente la sovranità popolare, dall’altro in due articoli, rispettivamente il 7 e l’11 (anch’essi inclusi fra i princìpi fondamentali), sembra riferirsi alla sovranità dello Stato, dove (articolo 7) sottolinea la sovranità dello Stato e della Chiesa (nel proprio ordine), e dove (articolo 11), parlando di limitazioni di sovranità, individua come soggetto di quest’ultima lo Stato italiano”.

“Si tratta insomma di capire se nella nascente Repubblica democratica il vecchio principio assoluto della sovranità dello Stato sia stato superato dalla sovranità del popolo, o se le due sovranità coesistano”.

E veniamo all’articolo 3, oggi tanto citato e decantato, il quale così recita, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di re­ligione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ebbene, Norberto Bobbio, non un cittadino qualunque, a questo proposito osservò “eguaglianza tra chi? Eguaglianza rispetto a che cosa?”. Anche questo è un punto da chiarire”.

“Parlando come avvocato, vorrei dire che una Costituzione, oltre che un sistema di organizzazione dei pubblici poteri, dev’essere un insieme di garanzie giuridiche degli individui e dei gruppi, e che in essa ogni parola che non abbia un significato giuridico getta una luce di incertezza sull’intero documento e accresce pericolosamente le possibilità dell'interprete. La Costituzione non deve essere una antologia di buoni propositi, ma la spina dorsale di un concreto ordinamento giuridico”.

Anche l’Inno nazionale andrebbe aggiornato, anzi, non andava bene nemmeno allora: è l’inno di un’Italia non ancora unita, un invito all’unità, non una realtà. Uniamoci, stringiamoci a coorte per riscattare la nostra libertà dallo straniero. Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi. Le stonature sono molte, né vale prendere e cantare solo alcune parti dell’inno: o lo si canta tutto, o niente. Che senso ha prendere i primi versi quando oggi lo spirito e la situazione non sono più quelli di allora? L’inno nazionale canta il presente, non il passato, può contenere qualche ricordo, ma non può essere tutto impostato sull’invito e sulla speranza di una unità che ancora non c’è. Sembra che l’inno sia stato assunto solo per via di quell’Italia s’è desta, un’espressione che viene ricondotta impropriamente alla Resistenza. Ma subito dopo viene l’elmo di Scipio: uno Scipio (non Scipione) che richiama non solo l’antica Roma ma anche il Fascismo (con l’iniziale maiuscola, come tutti i movimenti, politici e non politici), con la Vittoria, personificata, che porge la chioma all’Italia perché Dio l’ha creata schiava di Roma. Tutto ciò è risibile. O forse i padri costituenti hanno voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte per accontentare, e unire, anche gli ex fascisti e far così passare l’inno come l’inno di tutto un popolo. Ma l’immagine più stonata e fuori luogo, per non parlare di Legnano, Ferruccio, i Balilla e i Vespri, è quella dell’Aquila d’Austria che ha perso le penne, che bevé col cosacco il sangue d’Italia e il sangue polacco”.


di Mario Scaffidi Abbate e Renato Siniscalchi