Opinioni a confronto: filosofia del benessere

mercoledì 17 febbraio 2021


Una massima latina, che alcuni attribuiscono a Thomas Hobbes, il filosofo del giusnaturalismo e del Leviatano (nonché inventore della celebre frase “Homo homini lupus”), ma il cui concetto risale all’epoca romana, dice: “Primum vivere, deinde philosophari”. Cioè: “Prima pensiamo alla vita pratica, poi, e solamente dopo, ragioniamoci sopra”. Che è come dire: prima teniamo i piedi sulla terra, ben saldi e cercando di non cadere, poi alzeremo la testa verso il cielo, fra le nuvole, alla ricerca di Dio e dell’origine della Creazione. Noi invece, di solito, a differenza degli uomini primitivi, quando ancora camminavano proni come gli animali e soltanto sdraiati a pancia sopra potevano vedere il cielo, facciamo il contrario. Appena usciti dal grembo materno ci chiediamo, come dice Giacomo Leopardi nel Canto notturno: “A che tante facelle? Che fa l’aria infinita e quel profondo infinito seren? Che vuol dir questa solitudine immensa? Ed io che sono?”. E così cominciamo a lambiccarci il cervello, mentre i genitori piazzano sulla testata del nostro letto il crocifisso e, appena siamo in grado di leggere, i preti della parrocchia ci sbattono in faccia la Bibbia, l’Antico Testamento, i Vangeli, ci dicono che siamo stati battezzati per purificarci da un peccato (commesso da due sole persone, ma che ha coinvolto l’intera umanità, passata, presente e futura) e via di questo passo. Ti dico queste cose perché le ho vissute nel Ventennio, ed è da queste premesse che è nato il mio calvario alla ricerca di Dio (ch’è uscito proprio in questi giorni). A scuola, prima di sederci nei nostri banchi, la maestra ci faceva recitare una preghiera particolare, in cui alla fine spuntava la Trinità, che stava appesa sulla parete dietro la cattedra: Cristo crocifisso, il Duce e il Re. Poi veniva il Padrenostro (inventato da Gesù) con una serie di imperativi categorici, che, per quanto io avessi allora cinque anni, mi sgomentava e mi sembrava un’offesa a Dio: Dacci questo, dacci quello, non c’indurre in tentazione, liberaci dal male e così sia.

“Oggi, però, le cose sono cambiate”.

“Mica tanto. Ma questo è un altro discorso. Continuando al primo detto (Primum vivere, deinde philosophari), Orazio esortava l’uomo al Carpe diem. “Afferra il giorno, aggiungendo “quam minimum credula postero: non contare sul domani”. E il bello è che lo diceva anche Gesù, non preoccupatevi per il domani, perché ci penserà lui. Basta a ciascun giorno il suo affanno. Non chiedetevi cosa mangerete, cosa berrete, come vestirete: sono i pagani che ricercano queste cose, voi pensate prima al regno di Dio e alla sua giustizia”.

“Ci sono anche altri detti o consigli analoghi: pensa alla salute, prendi la vita con filosofia, e sono molti i filosofi che su quella massima o sentenza latina hanno lavorato sopra, come Aristotele, Kierkegaard, Hegel, Schopenhauer”.

Il teorizzatore della distinzione fra la vita pratica e quella contemplativa è stato appunto Aristotele, che ne parla nella Politica, che è la principale attività dell’uomo, il quale non deve pensare solo a se stesso, perché è un “animale sociale”. Pensa cosa farebbero i nostri politici se non godessero di una buona salute, non solo fisica ma anche e soprattutto mentale. La filosofia è la base della politica, ma quanti sono in Italia i politici che conoscono bene la filosofia? E gl’insegnanti stessi? La scuola insegna la storia della filosofia ma non l’arte di saperla applicare. Questo vale anche per la letteratura e per la storia stessa, ma gl’insegnanti ne parlano con superficialità e per di più secondo la loro ideologia politica o la loro visione della vita. Certo, la dialettica è necessaria, fondamentale, ma deve svolgersi sine ira et studio”.

“I politici di oggi, come gl’insegnanti, traggono le loro verità non dall’esperienza di vita, ma dal gioco della loro dialettica. E poi non sono verità che valgano una vita, quando essi stessi, come la donna mobile del Rigoletto, mutano d’accento e di pensier a seconda delle circostanze. Ma la questione è questa: cosa deve fare l’uomo per vivere una vita tale che gli consenta di ragionare bene, di filosofare in modo giusto?”.

“Pensare alla salute. Quando diciamo ad uno, specialmente se è preoccupato per qualche motivo, pensa alla salute, il senso è proprio questo. Io non so se la Filosofia del benessere (sulla quale scrivo articoli da più di cinquant’anni per una rivista di Naturopatia) sia una mia invenzione, perché ho trovato su Internet un libro pubblicato nel 2010 con questo titolo: io che in tante cose, come tu ben sai, sono stato un antesignano, fatto sta che quell’idea mi è venuta più di mezzo secolo fa, nata dalla meditazione yoga, che pratico tuttora, e sulla quale ho scritto tre libri. Che riassumo così: benessere vuol dire salute – fisica, psichica e mentale – e può sembrare strano come la salute possa avere a che fare con la filosofia. Abbiamo già detto altrove che per Epicuro la filosofia ha soprattutto una funzione terapeutica. Egli diceva infatti che la parola del filosofo è vana se non allevia le sofferenze dell’uomo. Ma cosa significa filosofia? Da filos e sofia, significa “amante della saggezza”, e con la saggezza si raggiunge appunto il benessere, una vita serena, tranquilla, libera da pensieri e sentimenti molesti. Il fine dell’uomo è dunque quello di conseguire e condurre una vita filosofica, perché il filosofo è saggio e chi è saggio è felice e, come diceva Orazio, non si scompone minimamente neanche se gli cascasse addosso il mondo. Seneca, un altro filosofo che pure ha parlato del benessere e della felicità, dice che l’animo dell’uomo deve tendere alla verità, a conoscere ciò che bisogna fuggire e ciò che bisogna cercare, a dominare i suoi pensieri e le sue azioni, deve essere imperturbabile, invincibile sia di fronte alle asprezze che alle lusinghe della vita, pieno di bellezza e di grazia”.

“Oggi, però, non è tanto facile raggiungere la saggezza: il mondo sta andando a rotoli ed è pieno di pazzi. Tu, sulla scia di Erasmo da Rotterdam, hai scritto l’Elogio della follia, e Francesco De Sanctis, parlando dell’uomo savio di Francesco Guicciardini, diceva che l’Italia perì perché troppi erano i savi (che pensavano al loro particulare) e pochissimi i pazzi”.

Ma veniamo al dunque. C’è una medicina indiana, l’Ayurveda, tramandata dagli antichi rishi, uomini saggi vissuti migliaia di anni fa. Oggi sono molti coloro che vi fanno ricorso perché in essa c’è un elemento spirituale che manca nella scienza medica occidentale. L’Ayurveda (da ayus, “durata della vita” e veda, “conoscenza rivelata”) migliora la salute e allunga la vita. È una medicina olistica, che guarda l’uomo nella sua totalità, sotto tutti i punti di vista (veda, infatti, significa “punto di vista”), e lo cura con prodotti naturali, come minerali, metalli purificati, infusi e soprattutto erbe, a cui si possono affiancare degli esercizi particolari, come tecniche di respirazione profonda e posizioni yoga (asana). L’Ayurveda muove dal principio che il corpo fisico è costituito da tre energie vitali (dosha) in proporzioni diverse, il cui equilibrio determina lo stato di benessere. Tali energie sono chiamate vata, pitta e kapha, e ciascuna di esse possiede particolari qualità (come caldo e freddo, leggerezza e pesantezza, sottigliezza e grossolanità). Vata, che risiede principalmente nel colon ed è composta da spazio e aria, è il principio del movimento che presiede in particolare alla respirazione e alla circolazione sanguigna; pitta, che risiede principalmente nell’intestino tenue ed è composta da fuoco e acqua, presiede alla trasformazione, sia sul piano fisico (digestione) che su quello mentale (elaborazione delle emozioni); kapha, composta da acqua e terra, presiede alla coesione, al mantenimento della unità, provvedendo alla lubrificazione del corpo e quindi alla sua uniformità e solidità”.

“La salute è quanto di più prezioso l’uomo possa possedere, senza di essa la qualità della vita peggiora. La salute facilita il raggiungimento delle nostre aspirazioni, ci consente di vivere autonomamente e al tempo stesso in armonia con gli altri”.

È anche un fatto sociale, un diritto ma al tempo stesso un dovere che abbiamo di fronte agli altri, alla società: dobbiamo cercare di stare bene non solo per noi ma anche per coloro che ci stanno vicino o con cui abbiamo rapporti. Da parte sua lo Stato deve dare il suo contributo, affinché il cittadino possa essere aiutato nella conquista del proprio benessere, e deve farlo con una sana amministrazione delle risorse economiche, sociali e sanitarie, che gli provengono anche dai contributi dei cittadini. Oggi l’uomo ha una vita più lunga di quella che aveva in passato, grazie ai progressi della medicina. Sono state debellate o rese meno gravi malattie che una volta portavano alla morte, come la meningite, la tubercolosi, il vaiolo, la poliomielite. I problemi di salute di oggi derivano generalmente dal nostro modo di vivere. Le malattie moderne sono quelle che colpiscono il cuore e il sistema circolatorio, ma provengono in gran parte dall’inquinamento ambientale, da abitudini dannose, come il fumo, la mancanza di attività fisica, l’abuso di bevande alcoliche, l’alimentazione eccessiva o incontrollata e lo stress: malattie che dipendono dal nostro tenore di vita”.

“Fare più attenzione a come si vive è il modo più sicuro per stare in buona salute. E anche questo è un dovere: uno Stato funziona meglio e gode di un benessere generale se ogni cittadino rispetta tale dovere. La salute è strettamente legata ai rapporti sociali, alla vita quotidiana, all’ambiente. Però i farmaci risolvono problemi singoli e momentanei, non bastano a dare equilibrio e armonia alla vita di un Paese”.

Uno dei più grandi handicap dell’uomo, se non il primo in assoluto, è la perdita o l’attenuarsi, il sonnecchiare del senso dell’unità e dell’unione col tutto e con Dio, dovuta all’individualizzarsi della coscienza divina che s’incarna nei singoli uomini. È da lì che derivano il nostro smarrimento, il nostro malessere, i nostri problemi, i nostri interrogativi, la mancanza di una vera e costante pace interiore, poiché con la nostra nascita è venuto a mancare, nel nuovo stato di coscienza o nella nuova dimensione in cui ci troviamo, il giusto, armonico ed equilibrato rapporto con Dio e con l’universo. Stando così le cose, è evidente che il nostro compito (anche se non il primo, poiché ciascuno di noi ha una sua vita e una sua ‘missione’ particolare) dovrebbe essere il recupero di questo senso di unità, perduta o non più percepita in modo pieno e totale, cosa non impossibile, visto che molti sono riusciti e riescono a percepirlo, a livello profondo. È in questa dimensione che risiede il vero benessere dell’uomo, e lo testimoniano molti saggi, mistici e santoni orientali. Su questo argomento esistono molti libri, uno dei quali s’intitola proprio Risvegliarsi all’unità.

“Ma in conclusione cosa dobbiamo fare?”.

Ciò che facciamo spesso col computer (ch’è uno degli aspetti scientifici e tecnologici di Dio): resettare il nostro mondo interiore, recuperando, insieme al senso dell’unione e dell’unità con l’universo e con Dio, quell’equilibrio e quell’armonia che governano il mondo, di cui l’uomo è l’espressione più alta. Parafrasando la celebre frase di Sant’Agostino (Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas), possiamo dire non andare a cercare fuori i rimedi ai tuoi mali, rientra in te stesso: è lì la chiave del tuo benessere, fisico e psicologico”.

Kundalini

Una forza divina

e selvaggia m’ha svelto

dalla radice dell’essere:

ho spezzato l’arcano

nodo che mi opprimeva.

 

Come l’Ardea purpurea

dopo un sonno di secoli,

io rinasco, io m’innalzo,

e in un volo trionfale

porto con me la morta

spoglia per consacrarla

alla Città del Sole!

 

Ah, tutta l’infinita

potenza della materia

primigenia, che una

caduca legge costrinse

entro limiti certi,

fuori di me si sprigiona

con un empito possente.

 

La materia, la forma,

la causa, l’effetto,

l’istinto, il senso, il pensiero,

tutto, compenetrandosi,

in me si fonde in una

trasparenza infinita.

 

Sono come un cristallo

in cui trascorre, invisibile,

la sorgente della vita.

 

E più non vedo, non sento:

svaniscono le cose

e le parole, in me

s’annienta l’Universo.


di Mario Scaffidi Abbate e Renato Siniscalchi