martedì 16 febbraio 2021
Proprio questo anno, dedicato alle celebrazioni per il settecentesimo anniversario dalla morte di Dante Alighieri, Alessandro Barbero, storico di valore e scrittore raffinato, ha pubblicato un libro edito dalla Laterza, dal titolo “Dante”, che appartiene al genere delle biografie intellettuali, dove viene descritto il contesto politico e culturale in cui il sommo poeta visse, partecipò alla vita politica del suo tempo e concepì le sue immortali opere letterarie.
Nella prima parte di questo libro, che si legge con piacere, grazie allo stile raffinato della scrittura, viene evocata la battaglia di Campaldino, avvenuta nel 1289, quando l’esercito fiorentino si spinse nel territorio di Arezzo per sottometterlo, a cui partecipò Dante Alighieri. Per Barbero questo episodio è fondamentale, per capire la personalità di questo sommo genio della poesia di tutti i tempi, poiché rivela che Dante, pur immerso nei suoi studi, era impegnato e partecipava alla vita politica del suo tempo. Inoltre, visto che l’esercito era composto da cavalieri, espressione dei ceti aristocratici di cui Dante non faceva parte, la battaglia di Campaldino aiuta a capire quale fosse la sua posizione sociale nella società e nel Comune di Firenze, a cui apparteneva. Bisogna considerare che i magnati del tempo di Dante aderivano alla ideologia cavalleresca del coraggio, della compassione, della fedeltà e della misericordia. L’addobbamento, una sontuosa cerimonia con cui si veniva eletti cavalieri, era costoso e riservato agli esponenti dei ceti aristocratici della Firenze del suo tempo. Barbero, da vero conoscitore della opera di Dante, citando il libro IV del “Convivio”, osserva che per Dante la nobiltà non era legata al lignaggio familiare ma dipendeva dalla predisposizione alla virtù, alla pietà, alla misericordia e al valore.
Enea, il capostipite dell’Impero, era una figura virtuosa e di valore per i suoi meriti personali e non per quelli dei suoi progenitori. Inoltre per designare la aristocrazia e i ceti ricchi e dominanti, si adoperava al tempo di Dante la parola gentilezza e non quella della nobiltà. Il governo popolare, a cui Dante partecipò, nutriva sentimenti di palese ostilità verso i magnati. Le notizie ricavate dai documenti storici dimostrano, al di là di ogni dubbio, che il nonno, il padre e gli zii di Dante erano uomini d’affari che praticavano l’usura e prestavano denaro per ottenere in cambio interessi consistenti. Geri del Bello, che Dante incontra, accompagnato da Virgilio, in una bolgia infernale dove espia le sue colpe, venne ucciso. Questo episodio cruento rivela che la società in cui visse il sommo poeta era abituata a convivere con le peggiori e più crudeli manifestazioni della violenza umana.
La città di Firenze, con il Comune e la signoria, era divisa in sesti, espressione che designava gli spazi politici in cui le fazioni si fronteggiavano e competevano per avere il dominio sulla vita pubblica. Si pensi, per esempio, alla divisione in ambito guelfo tra i bianchi ed i neri, a capo dei quali vi erano rispettivamente le famiglie potenti ed influenti dei Cerchi e dei Donati. La Firenze che appare desolata e vuota a Dante, dopo la prematura scomparsa di Beatrice, la donna di cui si era innamorato durante l’adolescenza, offre a Barbero il destro per dare una nuova interpretazione della “Vita nuova” di Dante, opera che può essere considerata un romanzo in cui l’autore analizza la passione d’amore, il modo in cui avviene l’attrazione tra gli uomini e le donne, e, soprattutto, il rapporto che deve esserci tra la ragione e il sentimento, visto che spetta alla razionalità guidare i comportamenti umani.
Nel XV canto dell’Inferno Dante incontra il suo maestro Brunetto Latini, a cui deve la formazione intellettuale, la capacità di capire il valore della scrittura letteraria e poetica, e la scoperta dei grandi autori classici, quali Ovidio, Stazio, Lucano, Virgilio e Cicerone. Dante, e questo risulta in modo indubitabile, frequentò l’ambiente universitario di Bologna, ma, disprezzando il sapere che si compra e si vende, comprese che si poteva imparare leggendo i grandi libri, e in questo periodo scoprì l’Etica Nicomachea di Aristotele. Nel libro è indimenticabile la parte in cui viene descritto in modo magistrale l’ordinamento di giustizia, che venne di fatto inventato e creato da Giano Della Bella, che diede vita ad un regime popolare nel Comune a Firenze, da cui i magnati erano esclusi e puniti nel caso in cui offendessero i ceti popolari, composti da artigiani, imprenditori e dalle forze produttive. Il 5 luglio del 1295 Firenze era sull’orlo della guerra civile, poiché i magnati volevano la modifica degli ordinamenti di giustizia in loro favore. Dante, che partecipava al governo della città, ed era su posizioni affini ai ceti popolari moderati, acconsentì a questa riforma. Tuttavia, Dante, facendo parte del consiglio dei cento, si oppose alla richiesta del Papa Bonifacio VIII di inviare cento cavalieri fiorentini contro i conti Aldobrandeschi in Maremma. In seguito, ai primi di novembre del 1301, Carlo di Valois entrò in Firenze, sicché i bianchi vennero esclusi dal governo del Comune e ed ebbe inizio il dominio della fazione dei neri. I bianchi vennero condannati con un procedimento giudiziario per baratteria e allontanati dalla città. Fra questi vi fu Dante Alighieri, che come racconta il Boccaccio nel libro che gli ha dedicato, visse esule a Verona, Treviso e Ravenna.
È bella e profonda l’analisi della famosa “Epistola V”, di cui è autore Dante, che annunciava all’Italia la venuta del nuovo Imperatore Enrico VII, e con cui invitava i Comuni e le città a sottomettersi alla sua giustizia. La morte dell’imperatore Enrico VII, dopo una successione di eventi politici sorprendenti, fece perdere a Dante la speranza di potere rientrare a Firenze. A Verona, Dante visse alla corte di Cangrande della Scala (Can Francesco della Scala), a cui pare che abbia indirizzato una epistola, sulla cui autenticità esistono innumerevoli dubbi. Belle e indimenticabili sono le pagine del libro dedicate agli uomini di corte, che intrattenevano con la loro cultura i signori e gli aristocratici nei castelli in cui venivano ospitati. Si pensi, a questo proposito, alla figura di Ciacco descritta da Dante nel VI canto dell’Inferno. Guido da Polenta, signore di Ravenna, volle avere Dante tra i suoi sudditi, dopo che il sommo poeta aveva abbandonato Verona e altre città, sui cui non si hanno notizie certe. Non bisogna dimenticare che nel XIV canto del Purgatorio Dante si scagliò contro la nobiltà di Ravenna, perché le famiglie – che un tempo avevano fatto regnare in quella città amore e cortesia – sia erano estinte. Malgrado ciò e i versi sferzanti scritti da Dante sulla città di Ravenna, Guido da Polenta, essedo uomo erudito e uno scrittore, volle ospitare nella sua città il sommo poeta. Un libro colto e raffinato.
Alessandro Barbero, “Dante”, Laterza, pagine 361
di Giuseppe Talarico