Rino Barillari: l’uomo obiettivo

venerdì 29 gennaio 2021


The King of Paparazzi, all’anagrafe Saverio Barillari. Prima scatta e poi chiede “permette?”. Se danno il consenso, bene, se dicono di no, pubblica le foto più brutte. Questo è quello che ama raccontare con aria scanzonata, quasi strafottente per chi non lo conosce, mentre chi ha avuto il piacere di essergli amico, ha sperimentato la bontà e la morale di Barillari. Ha un vocabolario tutto suo: “catastrofic situation”, “difficolt” “sbandament”, “egoist”, “inedit”, “different”, “fantastic”, “scandal”, “finish” ed altri. Uno slang nato per ovviare al fatto che non sapesse l’inglese (in realtà nemmeno l’italiano). Partito da un piccolo paesino della Calabria per trasferirsi a Roma a soli 14 anni. Una carriera intensa quella di Barillari, nato come scattino per i turisti di Fontana di Trevi per poi diventare a sua volta oggetto dei paparazzi: mostre, docufilm, libri, pagine e pagine di inchiostro per raccontare la sua vita pubblica. Oggi andremo a scoprire una parte semisconosciuta di questo mito: metà uomo e metà macchina fotografica.

Una famiglia unita, la sua, formata dai genitori commercianti e dai quattro figli: Marisa, Angela, Pino e Saverio, appunto, quello che darà soddisfazione alla sua gente, ai suoi parenti, al paese intero che più volte lo osanna. Chiamato in numerosissime trasmissioni tv, lui è restìo, ama stare in disparte, con gli amici di sempre: due chiacchiere, sigarette e bollicine. Molto riconoscente verso tutti quelli che gli hanno teso una mano, tanto da fargli portare ogni mese una rosa rossa sulla lapide di Anna Magnani nel cimitero di San Felice Circeo. Un gesto simbolico, in segno di ringraziamento per averlo introdotto in quel mondo dorato della Dolce Vita romana. Alcuni numeri: oltre 450mila foto pubblicate; 165 volte in ospedale per infortuni sul lavoro; 11 costole rotte; due figli; due matrimoni. Rino è un gentiluomo, ha saputo mediare tante volte, scegliendo di non pubblicare foto che avrebbero potuto rovinare intere famiglie. Ha immortalato tutti: dai vari Papi che si sono succeduti a capi di Stato provenienti da tutto il mondo. Tutte le star sono passate sotto il suo obiettivo, così come tutta la cronaca nera della Capitale: dal delitto di Wilma Montesi, alla banda della Magliana e ancora: l’omicidio di Aldo Moro, l’attentato a Papa Wojtyla.

Barillari ha documentato un pezzo importante dell’Italia sotto ogni forma e colore. Due scatti su tutti: Papa Giovanni Paolo II che gioca a bocce e Sofia Loren con i bigodini in testa, mentre esce dal parrucchiere per raggiungere l’albergo. Il termine “paparazzo” fu inventato da Federico Fellini, prendendo spunto dal cognome del fotografo che esercitava la professione nel film La Dolce Vita, dove però era usato quasi in modo dispregiativo. Barillari ha dato un vestito nuovo a questo termine, nobilitandolo ed elevandolo al massimo. L’immagine che personalmente ho di Rino è quella dove è seduto, a notte fonda, all’Harry’s Bar in via Veneto (nel locale del compianto Rino Lepore) avvolto nel suo gessato scuro, profumatissimo, con un flùte pieno di Perlage, mentre sorseggia calmo, quasi distratto, con l’aria da basset hound ma che alla vista di una possibile preda diventa un fantastico ghepardo. Lo raggiungo al telefono mentre fa una passeggiata riabilitativa per le strade di Ferentino (Frosinone), paese che oramai lo ospita da anni, da quando è iniziata la sua relazione con Antonella, colei che lo ha fatto capitolare per la seconda volta, dopo oltre venti anni di fidanzamento.

Ciao Rino, come stai?

“Noproblem” se mi senti un po’ affannato è solo perché sto camminando, sai che sono stato in ospedale tanto tempo perché sono finito in una buca e ho subìto due operazioni. Sto bene ma devo fare riabilitazione perché quando usciremo da questa situazione voglio correre.

Come stai vivendo questo periodo?

Sto lavorando, guardo e sistemo l’archivio personale, mentre mi guardo intorno per vedere se adocchio qualche personaggio. Sempre sul pezzo, sempre in allenamento. Quando tutta questa storia sarà finita il Paese avrà bisogno di uomini e donne pronte, in ogni settore. Bisogna essere allenati per ripartire alla grande.

Sei arrivato a Roma a soli 14 anni, che cos’era per il giovane Rino “La Dolce Vita”?

Beh, a quella età come fai? Per me era il presente, quello che stava succedendo, quasi non me ne rendevo conto. Sapevo cosa avevo lasciato, la vita dolce di provincia, l’associazione cattolica, le giacche dismesse di mio padre che poi erano quelle di mio nonno. Che cos’era ma di che? Si andava con le scarpe bucate. Guardavo chi stava peggio di me e in qualche modo mi consolavo. Tutto sommato ero fortunato, perché quello era il modo di vivere della maggior parte degli italiani.

Minorenne, da solo nella grande metropoli, dove sei andato a vivere?

Appena arrivato mi sono sistemato alla stazione Termini, sulle panchine esterne, perché per quanto fosse all’aperto c’era un po’ di sicurezza in più rispetto ad altre zone. Poi ho scoperto Villa Borghese, sempre sulle panchine ma almeno avevo il verde che mi faceva compagnia. Poi piano piano ho saputo di un alloggio in via del Governo Vecchio, andavo a dormire rispettando i turni: qualcuno usciva per andare a lavorare e io prendevo posto nel suo letto. Mi verrebbe da dire come molti extracomunitari, ma poi devo ammettere che loro stanno in ogni caso meglio di come stavamo noi allora. Non c’era niente, ma niente di niente. Farebbe bene ai ragazzi di oggi dormire sulle panchine, capire i sacrifici dei genitori, dei nonni.

Cosa non va nei ragazzi di oggi?

Il benessere. Non sanno neanche cosa vuol dire avere una penna in mano. Non c’è più il cuore. Non c’è più sentimento. L’era del consumismo ha rovinato tutto. I ragazzi gestiscono tutto a modo loro, educati all’usa e getta. Non hanno cura di niente. Io se ho una penna ancora la tratto con cura, la osservo, ci parlo, ci faccio l’amore. Loro ne hanno cento e le perdono, le dimenticano. Ancora non c’è una definizione per tutto questo. O forse si, “catastrofic”.

Non pensi che la colpa sia degli adulti?

Sì e no. Se non mettono scarpe e borse firmate, telefonino alla moda, se non hanno il logo bene in vista, si sentono esclusi dalla massa, dal branco. Non sanno stare da soli. È così bella la solitudine…questi a trent’anni stanno ancora con i genitori, non sanno affrontare la vita oltre le quattro mura domestiche. Mio padre mi strillava e io lo ringrazio, i padri di oggi non hanno midollo spinale.

Hai due figli avuti dal primo matrimonio, che padre sei stato?

Se avessi avuto la possibilità, avrei fatto meglio. Devo essere onesto, la madre è stata bravissima. Quello che va detto bisogna dire. Io pensavo solo a lavorare senza sosta.

 Che cosa ha rappresentato Il Messaggero per te?

“Important”! Uno, perché è il quotidiano della Capitale. Due, perché è il giornale delle famiglie. Grazie al direttore Mario Pendinelli e, dopo, ai Caltagirone, Azzurra e il padre, ho lavorato sempre in armonia. La redazione è stata ed è la mia seconda casa. Ho dato il meglio per un Paese che sta andando sempre peggio. Ho fatto sacrifici, ho avuto paura, ho gioito e pianto. Se penso ora dove siamo finiti, usciamo mascherati, ma che roba è? Chi siamo? Boh…

Oggi, mascherati, ha ancora senso la paparazzata?

Ha sempre senso, anche se manca il meglio, manca il sorriso. L’unico modo per tenerci vivi è il sorriso, mandare una barzelletta ad un amico, raccontargli un aneddoto divertente per strapparglielo con tutte le forze, il sorriso. Siamo braccati. La Dolce Vita non c’è più. Stiamo messi peggio della fine della guerra, perché in quel caso si sapeva che bisognava ricostruire, qui non sappiamo che fare: c’è paura. Ho perso un po’ di amici di Covid-19. C’è rimasto solo da pregare. 

Sei credente?

Che mi fai dire, mi vuoi far commuovere? In questo momento sì, sono credente e prego. Quando sei forte non ci pensi, ti senti invincibile, come quando sei innamorato. Ma ora, in questa situazione ti aggrappi a tutto. Io mica posso parlare con tutti come con te oggi? La gente non vuole sentire discorsi tristi, allora faccio il giullare altrimenti si impazzisce. Sai di cosa ho veramente paura? Ci sei?

Sì, certo che ci sono, ti sto ascoltando attentamente.

Ho paura dei furti, dei saccheggi nei negozi, di una specie di cannibalismo materiale. La gente sta impazzendo.

Ti sei sposato da qualche anno dopo una lunga relazione con Antonella, non sei solo, sei in compagnia di una donna bellissima fuori e dentro.

E meno male! Sono le donne che salvano le famiglie, pensa chi è costretto a stare con una rompiscatole, per carità.

Un’immagine bella e una brutta dell’Italia che ti ha più colpito.

Anni Sessanta: una nazione in pieno benessere e fermento. Tredici pagine di annunci economici: sai quanti sono? Quanto lavoro c’era? La gente era felice. Quel mondo di Hollywood sul Tevere. Norvegesi, inglesi, svedesi, donne fantastiche che venivano in Italia per conoscere gli italiani. Anche le “batton-girls” avevano un’aria mistica. Da noi non esisteva ancora la depilazione. Si veniva multati se ci si baciava per strada. Poi è arrivata la Contestazione, il 6 politico, il terrorismo sia di destra che di sinistra, le occupazioni di San Basilio e hanno seminato il terrore, portando la nazione in agonia: l’angoscia di trovare i cadaveri per strada.

Lo scoop che non hai fatto, ma che ti sarebbe piaciuto fare?

Tanti! Ma uno su tutti: avrei voluto passare una nottata in giro con il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II. “Fantastic”.

Qualche rimpianto?

No. Però se tornassi indietro passerei più tempo con i miei figli. Se hai una famiglia in pace, stai meglio anche tu.

A pochi giorni dal tuo compleanno che bilancio fai?

Il bilancio è positivo. Vorrei solo ricominciare da capo per fare quello che non ho fatto.

Prosecco o champagne?

‘A guerra è guerra: champagne!


di Giò Di Sarno