venerdì 16 ottobre 2020
Un giurista che da “tecnico” o “esperto” del diritto diventa un maestro anche in altre discipline è un caso tanto raro, quanto segnale di ampiezza e profondità di pensiero. È ciò che è capitato a Carl Schmitt (ma con lui – per rimanere al Novecento, a Maurice Hauriou, Santi Romano, Rudolf Smend, Hans Kelsen, a tacer d’altri); con la particolarità che, in Italia, a partire dalla rinascita schmittiana degli anni Settanta, l’attenzione è stata dedicata agli aspetti filosofici-politologici del suo pensiero, piuttosto che a quelli giuridici. Ma, a tale proposito, ricordiamo che Schmitt, nell’ultima – che ci risulti – intervista, rilasciata proprio ad uno studioso italiano, Fulco Lanchester, affermò di essere un giurista al 100 per cento.
Tra la consapevolezza di Schmitt di essere giurista e il carattere “multi disciplinare” delle sue opere, la verità sta, per così dire, nel mezzo: la ricchezza del pensiero (e degli interessi) del giurista di Plettenberg è tale che ha esondato dalle “classificazioni” convenzionali.
E a proposito (anche) degli interessi, scrive l’autore nell’introduzione, che nei saggi raccolti nel libro si parla di Schmitt, ma anche di altre figure “alle quali, per le diverse ragioni di volta in volta invocate, il suo nome è raccordabile più o meno strettamente” e questo con l’auspicio che “portando alla luce i collegamenti del celebre e controverso giurista tedesco con i poeti, letterati, artisti, filosofi e cultori del diritto che vi si avvicendano, oltre a contribuire alla conoscenza del suo proteiforme e mobile pensiero, aprano la vista sull’ambiente in cui questo è venuto a formarsi ed esprimersi e, di rimando, sulla cultura di area germanica ottocentesca”.
Così Luigi Garofalo (in “Intrecci schmittiani”, edizione Il Mulino) ricorda non solo i rapporti tra Schmitt, Hugo Ball e Theodor Daübler e col pensiero di Johann Jakob Bachofen (poco noti) ma anche quelli – del tutto ignoti – tra la pittura di Vassily Kandinsky e la concezione teologico-politica di Schmitt, confrontate da Hugo Ball, come accomunati dalla volontà di uscire dalla crisi della modernità. Quanto alla conferenza di Schmitt sulla situazione della scienza giuridica europea, all’attenzione di tanti e definita “una delle più alte apologie della tradizione giuridica”, scrive Garofalo che “essa è di notevole interesse anche per i cultori del diritto romano: perché restituisce loro l’immagine che di tale diritto ovvero della “Wissenschaft des römischen Rechts”. Apprezzata da Schmitt malgrado il Bgb (il codice civile tedesco), contaminato dallo “spirito liberal-individualista della pandettistica” era perciò avversato dal nazional-socialismo, onde ne era prevista la sostituzione con un nuovo codice “popolare”.
L’ostilità di Schmitt al positivismo, in particolare a quello a lui contemporaneo e alla prassi di normazione “motorizzata”, per cui la stessa “interpretazione della scienza giuridica positivistica non è in grado di tenerle dietro” emerge. “E allora non nascono più gli scritti sistematici dei professori di scienza del diritto e al posto loro subentra il funzionale commento di chi esercita praticamente il diritto. Escluso che la scienza del diritto che accomuna le nazioni europee possa impegnarsi in una gara di corsa con il metodo del decreto legge e dell’ordinanza”. Schmitt ritiene che “essa debba invece prendere coscienza del suo esser diventata l’ultimo asilo del diritto e cercare di tutelarne l’unità e la coerenza vulnerate appunto dall’eccesso di produzione giuridica”.
Il diritto, inteso come ordinamento concreto, non può essere dissociato dalla storia e dall’interpretazione dei giuristi (e dei giudici in particolare). Ceto che ha elaborato per secoli “da sé il diritto, riuscendo a riportare nel suo alveo pure le statuizioni normative a carattere autoritativo: e quindi, anzitutto, della scienza dei giureconsulti romani, trasmessa da Giustiniano; e poi anche della scienza dei giureconsulti che si sono avvicendati dall’età dei glossatori a Friedrich Carl von Savigny”.
Seguono i saggi (capitoli) interessanti su Bachofen, e sul Nomos – che è utilizzato anche per vicende contemporanee – ma che la brevità naturale di una recensione impone di consigliare all’attenzione dei lettori.
Luigi Garofalo, Intrecci schmittiani, Il Mulino, Bologna 2020, pagine 183
di Teodoro Klitsche de La Grange