Enrico Malizia ci racconta: A Cortina con Hemingway

mercoledì 23 settembre 2020


In quasi un secolo di vita (è entrato nei novantacinque anni) Enrico Malizia s’è dedicato principalmente alla sua insaziabile curiosità di vita: dallo studio alla conoscenza di persone, storie di vita e, soprattutto, scelte umane che hanno condizionato la vita dei posteri. Malizia ascolta tutti, e senza dimostrare pregiudizi di sorta. L’essere diventato un noto clinico tossicologo, professore universitario e custode dell’altrui salute, gli ha aperto le porte di tutte le famiglie più in vista d’Europa e non solo, permettendogli di carpire gli aspetti reconditi di grandi dinastie industriali ed aristocratiche. Questo ha permesso al nostro narratore di prendere parte alla ricostruzione della storia umana. Il suo metodo da medico ha fatto il resto. Pochi giorni fa non l’ha fermato nemmeno il caldo o la fatica d’arrampicarsi sino al Campidoglio, dove naturalmente si parlava di A Cortina con Hemingway, il suo ultimo libro: senza fronzoli e mondanità, dedicato ai racconti del paziente scrittore al giovane medico (lo ha editato Sarpi Arte). Malizia riconosce molti meriti a Ernest Hemingway, ma lo condanna per certi gesti d’ingratitudine verso personalità internazionali con lui prodighe, per il suo velato egoismo e, forse, per non aver abbandonato l’alcool come compare di vita. Mezza Europa ha dato ascolto al saggio Malizia, prima valente nefrologo (a lui si deve la dialisi in Italia) e poi come tossicologo, da Sir Winston Churchill a Fernanda Pivano, passando per corti e salotti: ma ad Hemingway non si potevano dare certo consigli, perché lui doveva vivere a pieno l’avventura, dalle donne all’alcool, dai pericoli naturali alle guerre inventate dall’uomo. “Vivere veramente e non puramente trascorrere i giorni” faceva dire Francis Scott Fitzgerald al suo Grande Gatsby, ma in cuor suo pensava all’amico Hemingway, a cui l’epiteto calzava tutto.

Caro professore, io vorrei iniziare dalla fine dei giorni e chiederle se Hemingway poteva essere salvato. Insomma, è stato curato male?

Hemingway poteva essere salvato. Andava curato per tempo e certamente non sottoposto all’elettroshock. Nel 1954 era profondamente gratificato dall’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura, che era stato preceduto dal Pulitzer e dal Bancarella. Vennero poi gli anni della delusione, e nel 1960 chi lo aveva sottoposto all’elettroshock aveva distrutto la sua memoria, le sue capacità creative e facoltà cognitive. Se fosse stato curato lenendo i suoi problemi, le sue dipendenze, forse non avrebbe scelto la morte.

Lei lo conosce da uomo famoso?

Famoso era già Hemingway, io ero un medico che muoveva i primi passi, seppur con tanto intuito. Conosco Ernest Hemingway nel marzo del 1949, e grazie a Mario Rimoldi, sindaco di Cortina e mio amico. Il sindaco era anche proprietario del più bell’albergo della perla delle Dolomiti, l’Hotel Corona. Hemingway era già famoso, ed i suoi libri avevano indissolubilmente orientato il cinema americano, che era il riferimento mondiale per l’arte di celluloide. L’essenzialità e asciuttezza del suo linguaggio ha influenzato il romanzo del ‘900, e dopo di lui nessuno s’è più azzardato, soprattutto negli Usa, a ricalcare i vecchi sentieri del racconto. Io curavo Hemingway per l’erisipela, contratta mentre era a caccia nella laguna veneta, e non certo per postumi bellici. Quei tempi di guerra erano ormai alle nostre spalle. Certo l’uomo aveva il senso dell’avventura sempre presente. Fu lui stesso a confessarmi d’aver preferito nel 1917 arruolarsi al lavoro di giornalista: quando gli Stati Uniti d’America entravano in guerra, Hemingway lasciava il lavoro e si presentava come volontario per andare a combattere in Europa con il Corpo di spedizione statunitense del generale Pershing, come già stavano facendo molti giovani aspiranti scrittori come Cummings, John Dos Passos, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald. Si conobbero durante la Grande Guerra e si frequentarono per sempre.

Ma la guerra la fece veramente?

Per un problema giovanile ad un occhio, a seguito d’una scazzottata, veniva aggregato alla Croce rossa. Il giovane Hemingway desiderava però assistere alla guerra da vicino, così fece domanda per essere trasferito. Veniva mandato sulla riva del basso Piave, nelle vicinanze di Fossalta di Piave e Monastier di Treviso, come assistente di trincea. Aveva il compito di distribuire generi di conforto ai soldati, recandosi quotidianamente alle prime linee in bicicletta. Durante la notte tra l’8 e il 9 luglio, nel pieno delle sue mansioni, veniva colpito dalle schegge dell’esplosione di una bombarda austriaca. Cercava di mettere in salvo i feriti ma, mentre stava recandosi al Comando con un ferito in spalla, veniva colpito alla gamba destra da proiettili di mitragliatrice. Dopo più di cento anni dall’accaduto, il nome di quel soldato sarà poi individuato dal biografo statunitense James McGrath Morris e dallo storico italiano Marino Perissinotto nel fante Fedele Temperini. Hemingway amava Cortina perché contigua ai luoghi ove s’era combattuta la Grande Guerra.

Non vorrei parlare delle mogli, su cui si dilunga nel libro. Ma non le sembra che il grande amore Hemingway lo incontrava al fronte?

Dopo che era stato operato, all’Ospedale della Croce rossa americana a Milano, s’innamorava di un’infermiera statunitense di origine tedesca, Agnes von Kurowsky, che però non manterrà la promessa di sposarlo: considerava il rapporto con lo scrittore avventuriero una relazione giovanile, fugace e platonica. La vicenda ispirerà nel 1929 A Farewell to Arms (Addio alle armi): una volta dimesso, e decorato con la medaglia d’argento al valor militare italiana, ritornava al fronte a Bassano del Grappa. Quando l’esercito veniva smobilitato, il 21 gennaio del 1919, Hemingway faceva ritorno alla sua Oak Park, dove veniva accolto come un eroe. Lo scrittore ha dichiarato d’amare tutte le donne che ha incontrato, tutte le voleva sposare, nessuna avrebbe mai lasciato. Posso affermare che è stato un antesignano della famiglia allargata.

E l’ingratitudine fu anche verso una donna?

Lui doveva tantissimo alla scrittrice statunitense Gertrude Stein (espatriata a Parigi), lei presentava a Hemingway sia James Joyce che Ezra Pound. La Stein ha aperto allo scrittore le porte dell’alta intellettualità europea. Nel libro spiego la pecca di gratitudine di Ernest. Ma è tutto perdonabile ad un vero avventuriero che beveva e sapeva condurre una vita davvero sregolata, come quando abbandonava Parigi e partiva in un viaggio interminabile verso le isole Marquesas e la Tortuga.

Perché solo ora questo libro?

Perché dopo quasi ottant’anni ho trovato il tempo di mantenere la promessa fatta da giovane a Fernanda Pivano (traduttrice di Hemingway), Milena Milani e Marta Marzotto: fare del mio diario con Hemingway a Cortina un libro.


di Ruggiero Capone