L’ossessione sociologica del cinema d’autore

martedì 8 settembre 2020


Pandemie, terremoti, profughi, minoranze e minorati. E naturalmente ecologia e migranti. L’arte cinematografica – e qualcosa si sta vedendo di ciò naturalmente a Venezia, per fortuna a distanza – è pervasa da anni da una non troppo magnifica ossessione: quella sociologica di volere cambiare il mondo. Naturalmente sotto i dettami e l’ottica delle tante utopie Politically correct. Possibilmente le più ipocrite e irrealizzabili. Prima c’era stata la fase para giustificazionista sul terrorismo islamico e lo scontro di civiltà: più film sull’Iraq che sul Vietnam e la Seconda guerra mondiale messi insieme. Ora la mondezza miserabile che vediamo ogni giorno, in tutte le maggiori reti tivù a ogni ora del giorno e della notte, è virata sul virus. Se passa ‘sto giochetto verbale. Così il famoso dibattito tra Elio Vittorini, il vecchio Pci di Palmiro Togliatti e il resto del mondo sulla funzione sociale dell’arte è diventato grottesco. Mettendo tutto e tutti sull’orlo di quel baratro oltrepassato il quale si urla come Fantozzi dopo l’ennesima proiezione de La corazzata Potemkin.

L’abuso delle parole – ad esempio “negazionismo”, che dovrebbe essere usata solo per la Shoah e per il diritto dello stato di Israele a esistere – è diventata la logica conseguenza di tutte le mistificazioni e delle ricostruzioni storiche e cronachistiche Ad usum Delphini. E questa roba spacciata per cultura, mentre la parola giusta sarebbe “culturame”, viene allegramente insegnata anche a scuola dai prof figli dei sessantottini se possibile ben peggiori dei padri. Prima si cantavano in coro le canzoncine del Piave ora quelle di Greta. Tutto ciò viene travasato ancora più nei talk show e divulgato ai telespettatori. Una specie di “populismo dell’apprendimento scolastico” e televisivo. Che sa di lavaggio del cervello. Tanto che potrebbe rivelarsi un falso problema persino una frequenza a distanza invece che in carne e ossa alle lezioni. La ciliegina sulla torta di tanti dibattiti sulla banalità, non più solo del male bensì di tutto lo scibile umano, è incarnata nel fatto facilmente constatabile che quasi ogni trasmissione televisiva culturale, e peggio se a metà tra politica e sociologia, è propedeutica solo alla réclame di un qualsivoglia libro che sicuramente non ha il valore di quello di scrittori e saggisti della seconda – meglio della prima – metà del secolo scorso.

Marchette penose che volano basse – veri uccelli paduli – nell’etere radiofonico e visivo. Sfide che consistono in reiterate prese in giro alle intelligenze dei cittadini e degli spettatori medi. Come il sottoscritto. Laddove medio non è comunque sinonimo di mediocre. Usque tandem? L’urlo liberatorio di Fantozzi non basta più per liberarsi da questo assedio. Metaforicamente parlando “toccherebbe menaje”. Cioè vendere il televisore o regalarlo a una parrocchia di rito bergogliano. Che li sono di bocca buona. Da quando i documentari – che se li guardavano a proprio rischio e pericolo coloro che volevano – si sono trasformati in docufilm o in serie tivù, per obbligare “moralmente” tutti o quasi a vederseli, istillando un subliminale (manco tanto) senso di colpa, abbiamo finito di vivere. Culturalmente parlando. Ci siamo appiattiti sul secondo livello della tivù del dolore e del piagnisteo continuo incappando talvolta in paradossali e tragicomici episodi. Questo è capitato spesso nel bombardamento retorico su mafia e antimafia ad esempio. Quanti eroi della denuncia del pizzo si sono trasformati in professionisti della comparsata televisiva e hanno anche lucrato su chi ha creduto loro spesso finendo anche nei guai? È tutto così adesso. Virologi in politica e in famiglia, perbenisti improvvisati di rito maoista, deprecatori professionisti, ciarlatani psicopolitici del “non lasceremo nessuno indietro”.

C’è una realtà retorico mediatica e poi c’è quella di ogni giorno. Tutti sono convinti – ad esempio – che il Covid abbia cambiato le nostre vite e magari in meglio ma nella realtà nessuno crede più in questo continuo “al lupo al lupo”. O se ci crede lo fa entro le rassicuranti mura dei “cazzi propri”. In Sardegna viaggio di ritorno dello scorso 3 settembre neanche hanno preso la temperatura prima dell’imbarco sui traghetti. All’andata a Civitavecchia, ma era sotto Ferragosto, invece sì. La gente non si va a fare i tamponi perché teme la rottura di starsene a casa a tempo indeterminato. Quelli che dovrebbero fare opera di persuasione applicano le procedure con disincanto burocratico. Però a Venezia e altrove nel cinema non si parla che di Covid, in primis, e poi in subordine di drammi, che riguardano minoranze molto concrete ma non tutti. La verità è che si vive in una società cinica e compiaciuta del proprio cinismo. Ma quando andiamo sui media, anche social, siamo obbligati ad avere buoni sentimenti.

Gli altri ovviamente sono tutti “odiatori”, non gente con le scatole frantumate dal cosiddetto pensiero mainstream. Scelti due o tre cattivi mondiali, Donald Trump e Benjamin Netanyahu e al limite Vladimir Putin, ma difficilmente il capo dell’apparato comunista cinese, e tanto basta per sentirsi meglio e inondare le radio e le televisioni con scenari apocalittici fingendo la preveggenza oltre che la competenza. Sono tutti sicuri che Trump perda le elezioni e ci fanno i film profetici oltre che dibattiti a raffica. Poi però arriva la realtà, e non sai mai se coincide. Se non dovesse – tanto – il giorno dopo nessuno chiederà umilmente scusa, confidando che le “cazzate” che saranno dette in futuro scaccino dalla mente del volgo quelle dette nel passato, anche prossimo. Citando Alberto Contri in una intervista divertente rilasciata recentemente a Radio radicale, tutto questo stato di cose si riassume con questa frase: “fa fino e non impegna”.

È l’essenza stessa della cultura politicamente corretta, così come del cinema – e Venezia è da anni il punto di riferimento in tal senso – e persino della letteratura. Per questo dopo Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia non abbiamo avuto quasi più nessuno che avesse qualcosa da dire. E se non hanno niente più da dire, da decenni, gli artisti visivi, i letterati, gli scrittori e i filosofi, nonché i leader religiosi – per fermarci a queste categorie del pensiero dello spirito – come ci si può illudere che abbiano qualcosa da comunicare di innovativo e piacevole i politici o, Dio non voglia, i magistrati? O, da un po’ di tempo a questa parte, persino gli scienziati, i virologi e i direttori sanitari? Se fosse vivo Thomas Mann per questo tipo di cinema scriverebbe un saggio titolandolo in maniera auto parodistica: “Morto a Venezia”.


di Dimitri Buffa