Interviste immaginarie: Cicerone

mercoledì 29 luglio 2020


Nelle mie interviste immaginarie non poteva mancare Cicerone, il personaggio più importante della romanità, non solo per il valore letterario della sua opera, per la mole delle notizie sulla situazione generale del tempo (sulle istituzioni politiche e sociali, sulla giustizia, sulla religione, sulle idee, sui costumi), per la quantità degli scritti e la varietà dei generi che hanno molto contribuito all’innalzamento della lingua latina, tanto che da lui derivò il ciceronianismo, cioè la tendenza a considerare il suo stile come un modello di perfezione, ma perché è stato anche uno dei più grandi avvocati di tutti i tempi e di tutti i Paesi. Così oggi pomeriggio, preso dallo scaffale, in cui sono sistemate in bella fila tutte le mie traduzioni di testi greci e latini, l’Orator (col sottotitolo L’arte di saper parlare), pubblicato dalla Newton Compton Editori, mi sono sdraiato sulla poltrona reclinabile del mio studio e tenendo in mano il libro con la sua immagine sulla copertina per facilitare il mio incontro con lui, ho chiuso gli occhi finché a un certo punto (la cosa non mi è difficile, visto che ormai da mezzo secolo pratico la meditazione yoga trascendentale) nella mia mente ha preso forma la sua immagine.

Ave, Cicero!”, ho esclamato. “Il suo nome deriva da cicer, che significa cece”.

“Sì. Originariamente questo soprannome veniva attribuito a chi recava sul volto un’escrescenza che aveva la forma di un cece. E giustappunto il capostipite della mia casata si ebbe quel soprannome perché sulla punta del naso aveva una protuberanza con al centro una fenditura che la rendeva simile a un cece. Ma poiché godeva di una discreta notorietà i suoi discendenti non disdegnarono quell’appella­tivo, anzi se ne compiacquero, nonostante le frequenti battute di scherno a cui erano esposti”.

Plutarco narra che già nel tempo dell’allattamento la sua balia sognò che i Romani avrebbero tratto da lei un grande giovamento. I primi segnali non tardarono ad arrivare: appena giunto infatti in età scolare si conquistò una fama e una stima tali che i padri dei suoi compagni si recavano alla scuola per verificare la sua preparazione nelle varie discipline, tanto decantata dai loro figli. I più rozzi, invece, morivano di rabbia nel vedere lungo la strada i loro figli far capannello intorno a lei in segno di onore”.

“Venni a Roma perché i miei volevano darmi un’istruzione adeguata. Fui affidato alle cure di mio zio paterno, Lucio Cicerone, e di mio zio materno, Caio Aculeóne, amico di Licinio Crasso, che attraverso il suocero Mucio Scevola l’Augure era legato a Lelio, il Sapiens, e al circolo degli Scipioni. In quest’ambiente ebbi i primi contatti con l’aristocrazia intellettuale romana e sentii nascermi dentro la vocazione all’eloquenza, che coltivai per tutta la vita. Scevola e Crasso furono i padrini del mio battesimo studentesco e mi avviarono alla conoscenza del di­ritto e alla pratica del Foro”.

“Da questa prima educazione familiare lei passò ad una preparazione culturale quanto mai vasta, che abbracciava l’oratoria, il diritto, la retorica, la filosofia, la poesia, la letteratura, la storia, la lingua, e che le infuse come un foscoliano furor di gloria unito ad un profondo amore per la patria e per la famiglia”.

“Io stesso negli ultimi capitoli del Brutus parlo del mio amore smisurato e irrefrenabile per lo studio, che mi teneva giorno e notte immerso in omnium doctrinarum meditatione. Non mancavo però di recarmi al Foro per ascoltare i più celebri oratori, quali Crasso, Antonio e Ortensio”.

“Lei esordì molto presto nell’avvocatura, a ventisei anni, con un clamoroso e rischioso processo in cui difese Sesto Roscio Amorino, accusato di parricidio. La vittoria in quel suo primo processo fece di lei un principe del foro”.

“Ma non dormii sugli allori: dopo quel processo mi recai in Grecia e in Asia Minore, visitando e praticando quanti erano maestri celebrati per dottrina ed eloquenza e facendo tesoro di ciò che trovavo in essi degno di essere imitato. Tornato a Roma, iniziai il cursus honorum”.

“Il processo che la spinse pre­sto sulla via di una fortuna ancora maggiore fu quello contro Verre, il governatore ladro della Sicilia, ac­cusato di concussione”.

“Le mie Verrine, le orazioni ch’io tenni contro Verre, sono indicative di quanto allora la politica influisse sulla giustizia e viceversa”.

“Come oggi: niente di nuovo sotto il sole. Un critico contemporaneo nella introduzione al Commentariolum petitionis – in cui suo fratello Quinto Tullio le dà consigli, suggerendole tutte le mosse necessarie per accattivarsi il consenso degli elettori, anche in maniera alquanto spregiudicata, sostenendo che nella campagna elettorale è più importante apparire che essere – ha scritto: “Supponiamo che fra qualche millennio un ricercatore si trovi di fronte a due frammenti e che sul primo legga: Pagare delle persone perché sostengano i candidati, distribuire posti e offrire pranzi pubblici costituisce una violazione della legge, e sul secondo: È possibile che si debba tornare a votare, e la verifica dei voti potrebbe portare lo scompiglio nei partiti. Certo è che la campagna elettorale è stata una battaglia senza esclusioni di colpi. I candidati hanno distribuito promesse di lavoro, buste con denaro, minacce, ricatti e ritorsioni. Ebbene, di fronte a questi due frammenti autentici (il secondo è riportato da un noto quotidiano italiano del 23 giugno 1987) il ricercatore riuscirà a capire che il primo si riferisce alle elezioni consolari romane del 63 a.C. e il secondo alle elezioni politiche italiane di oltre duemila anni dopo?”. La corruzione politica è dunque una piaga antica. Il che non la giustifica ma dimostra come sia difficile estirparla”.

“Bisogna dire però che i magistrati sono sempre andati a cercare il pelo nell’uovo. Facciano il loro dovere, indaghino pure e siano severi, ma non possono pretendere che i politici non facciano favori agli amici o a chi si è adoperato per farli eleggere. D’altra parte anche i magistrati hanno i loro favori, i loro sostenitori, e si comportano di conseguenza. Quando io, nel 69, fui eletto alla carica di edile i magistrati si accattivarono il popolo con distribuzioni gratuite di grano e l’allestimento di giochi e spettacoli. Cosa c’era di male? E cosa c’è di male se io, eletto console col favore del popolo e di personaggi influenti, offro loro una cena per ringraziarli? Del resto ai miei tempi non c’era la separazione dei due poteri, politico e giudiziario, quello giudiziario non era affidato a una magistratura autonoma ma si trovava in gran parte nelle mani dei politici. Un processo a un politico, però, restava un processo politico: l’accusa puntava soprattutto a devastarne l’immagine pubblica e privata, senza risparmiare i colpi più bassi”.

“È quel che accade anche oggi, quando i magistrati, per non sporcarsi le mani, il lavoro sporco lo fanno fare ad altri, ai giornali, alla televisione, ai pentiti, ai mafiosi, alle prostitute. È la Giustizia data in subappalto ad altri”.

“Che uno si dia alla politica anche per arricchirsi potrebbe pure essere accettabile, se non oltrepassasse i limiti della decenza. D’altra parte il bottino di guerra era considerato lecito, e quasi lecito l’arricchirsi onestamente, come io stesso feci nel biennio 51–50, durante il governo della Cilicia. In una lettera all’amico Tito Pomponio Attico gli confidai di avere allora depositato due milioni e duecentomila sesterzi. Ragione principale di tale prassi era il carattere stesso della carriera politica: gratuita e auto­finanziata. Spesso il candidato eletto era colui che riusciva a emergere – in un agone fatto di propaganda ma anche di elargizioni, giochi, spettacoli e persino corruzione dei votanti – solo grazie a spese sue, e talvolta a debiti enormi. Il fatto è che nel sistema romano non esistevano partiti politici in grado di organizzare e diri­gere il consenso, l’attenzione si concentrava sulla personalità del candidato e sul suo rapporto con i votanti”.

“Oggi, con la televisione, politica e giustizia sono diventate uno spettacolo”.

“Lo sono sempre state, anche nell’antica Roma. Il processo-spettacolo è un’invenzione dei Romani. In quegli anni si svolgeva in genere su grandi tribune montate all’aperto, nella zona centrale del foro. In un palco, nella parte più alta, c’era il presidente, in genere un pretore, uno degli allora otto politici eletti alla seconda carica dello Stato, più in basso, ai margini di una pedana, sedeva la giuria, di fronte, in un semicerchio di varie file, stavano i testimoni. La vasta area libera al centro era invece lo spazio dell’oratore. Tutto attorno, a terra, in una corona spesso molto ampia, si accalcavano le folle di curiosi o di tifosi”.

“Uno dei suoi processi più clamorosi fu quello contro Clodio, accusato di adulterio, commesso in un penetrale con la moglie di Cesare in violazione dei riti religiosi di un sacrificio durante il quale tutti gli uomini erano esclusi, al punto che si coprivano con un velo le pitture raffiguranti animali maschi. I giudici accettarono del denaro per assolvere l’imputato e, cosa ancora più turpe, abusarono, sempre a quel fine, di matrone e di nobili giovinetti. Così l’accusato di adulterio distribuì adultèri e solo dopo aver reso i giudici simili a lui poté essere sicuro di scamparla”.

“Il fatto superò ogni credibilità. Io scrissi testualmente: Clodio chiamò in privato i giudici, gli fece delle promesse, delle regalie, li supplicò. E poi, che infamia, buon dio!, alcuni di essi ottennero in sovrappiù anche i favori di certe donne e le grazie di giovani nobili. E così, adultero prima e ruffiano durante il processo, Clodio la fece franca e sfuggì alla condanna con atti ancora più vergognosi di quelli per cui era stato processato. Condannato per un solo adulterio, fu assolto per averne causati molti!”.

“Nel 62 lei difese Murena dall’accusa di brogli elettorali, giustificando, non senza un certo cinismo, in nome della prassi politica, le violazioni della legge elettorale che lei stesso aveva promulgato pochi mesi prima”.

“Vede cosa succede quando un uomo politico fa anche il magistrato, o viceversa? Il conflitto è inevitabile. I due poteri devono essere nettamente distinti. E per evitare confusioni un magistrato non può diventare politico e viceversa”.

“Lei è stato definito padre della patria, dopo la vittoria su Catilina. Molti sono gli appellativi lusinghieri che le hanno attribuito”.

“Ma non sono mancati i detrattori, invidiosi del mio successo. Mi contrastarono in tutti i modi, mi levarono il terreno da sotto i piedi per favorire altri personaggi, come Cesare, Pompeo e Crasso, che, formato il primo triumvirato, presero in mano il potere, tanto che io pensai di lasciare la politica e per un po’ di tempo mi allontanai da Roma. Poi Clodio, eletto tribuno della plebe, fece approvare una legge, la lex Clodia, che infliggeva l’esilio e la confisca dei beni a chi avesse mandato a morte cittadini romani senza il processo col ricorso del popolo. Una legge ad personam, fatta apposta contro di me per la mia condotta contro Catilina e i suoi”.

“Si fanno anche oggi le leggi ad personam: nulla di nuovo sotto il sole”.

“Fui condannato all’esilio, i miei beni vennero confiscati e la mia casa distrutta”.

“Fin dall’antichità sono piovuti su di lei i giudizi più contrastanti, che vanno dall’ammirazione fanatica allo svilimento della sua persona e della sua opera. Così lei è stato definito di volta in volta l’eloquenza personificata, il più grande statista e filosofo di tutti i tempi, il più grande uomo la cui importanza storica non solo eguaglia quella di Cesare, ma è di poco inferiore a quella di Gesù, di Paolo, di Agostino, un miope egoista, un giornalista nel senso peggiore del termine, ricchissimo di parole ma povero di pensiero oltre ogni credere, un superficiale e un insensibile, l’uomo più civile che sia mai esistito, che va giudicato per la sua condotta e le sue parole, non per la macchia sul risvolto del suo mantello, un iracondo, un egoista, uno che propagandava incessantemente la propria lode, un buon avvocato delle cattive cause, avido uomo d’affari, cattivo marito e padre egoista. E così via. Le si rimproverano l’indecisione, l’incoerenza, lo schierarsi ora con una parte politica ora con un’altra, il salire sul carro del vincitore di turno, la vanità, l’amore per il denaro e il ricorso a mezzi non sempre legali per ottenerlo”.

“Ma bisogna tener conto anche della situazione di allora, un periodo in cui la vita politica si svolgeva sul filo di amicizie personali e di rapporti clientelari, di accordi tra famiglie o gruppi di potere che usavano i partiti per scopi egoistici, e il denaro era il mezzo indispensabile per conseguirli e per avere successo”.

“Né più né meno come accade oggi. Lei ci offre il quadro della società di allora attraverso le sue orazioni, in cui si parla di suocere che amoreggiano col genero e avvelenano le figlie, di parenti che per disfarsi dei coeredi li uccidono o li fanno condannare, di amori ince­stuosi, della prepotenza dei giudici e della malafede dei magistrati”.

“Nella congiura di Catilina io diedi prova di un grande amor di patria e di molto coraggio. La mia fu una posizione netta, energica e risoluta. Ciò che a me mancava per essere un vero uomo di Stato era la sicu­rezza di giudizio e la fermezza di proposito nella lotta politica gior­naliera e volgare, in mezzo all’ondeggiamento dei partiti egoistici e personali, là dove la strada del diritto e del bene è smarrita e bi­sogna scoprirla, o anzi farsela passo per passo, e trascinarsi dietro gli altri. Io non ero fatto per queste difficoltà; e allora venivano fuori i miei tentennamenti, e nella mia scontentezza, di me e degli al­tri, le preoccupazioni personali prendevano talvolta il di sopra. Ma nel combattere i catilinari sapevo quello che dovevo e che volevo. Provocando dal Senato la condanna a morte dei congiurati – una deliberazione gravissima, perché era senza esempio che il Senato si trasformasse in un tribunale – io ero fedele a due princìpi fondamentali del mio pensiero politico: l’avversione per l’arbitrio personale che si sostituisce alla legge e la credenza che il Senato fosse il cardine, la suprema salvaguardia, il supremo governo dello Stato. Del resto io sapevo benissimo che la condanna a morte di Catilina e dei suoi complici mi avrebbe attirato accuse e rappresaglie”.

“Alcuni dei giudizi negativi su di lei vennero fuori quando, dieci anni dopo la sua morte e contro la sua volontà, alcuni malevoli, per screditarla, resero pubbliche le sue Lettere ad Attico, le quali se rivelano molte sue debolezze mettono in luce la sua umanità e la sua sensibilità nei confronti dei familiari e degli amici. Mi struggo di dolore, Terenzia mia, scriveva in una di quelle lettere. Io sono più misero di te miserrima, perché oltre alla sciagura comune mi pesa la colpa. Giorno e notte mi sta davanti il vostro dolore. Molti sono i nemici, invidiosi quasi tutti. Quando vi scrivo o leggo le vostre lettere mi sciolgo tutto in lacrime e non reggo. Comunque la morte, quella sua morte, la riscattò da tutto ciò che di negativo poteva esserci stato nella sua vita”.

 

Mio caro Marco Tullio Cicerone,

la voce di Giovanni, unica e sola,

dice che prima della Creazione

c’era ab aeterno solo la “Parola”

 

e che tale era Dio: la Creazione

è dunque frutto della Sua Parola:

“Creò dal nulla” è una contraffazione,

che non ha fatto e non farà mai scuola.

 

Se questo è vero, come credo io,

che ti conosco bene e sino in fondo,

della parola tu sei stato un dio.

 

Hai parlato di tutto, a tutto tondo,

hai regalato all’uomo un ben di Dio.

Non c’è oratore che ti eguagli al mondo.


di Mario Scaffidi Abbate