Opinioni a confronto: il “ritorno”

martedì 21 luglio 2020


“Parecchi anni fa, quando la scuola, le lezioni private, gli sceneggiati radiofonici per la Rai, la direzione di un periodico culturale ed altro ancora mi tenevano impegnato sino al collo, una parola che era molto in voga e che spesso mi veniva rivolta col punto interrogativo, era il ritorno, nel senso di guadagno o tornaconto. Quando chiedevo un favore, che non costava nulla, anche ad un amico, spesso la risposta era: E io che ritorno ne ho? Io gli davo, a gratis, il biglietto di andata, nel senso che gli affidavo, chessò, un articolo per la mia rivista o un intervento alla presentazione di un libro, e l’amico mi chiedeva anche il biglietto di ritorno. Io ho fatto il relatore in diverse presentazioni di libri e scritto recensioni a non finire, ma non ho mai chiesto alcun ritorno: l’ho fatto non per un tornaconto mio, ma per un tornaconto della cultura. Ho dovuto liquidare il mio periodico Cultura, perché i miei collaboratori, amici, a un certo punto se la sono squagliata”.

“Con la cultura non si mangia, disse il ministro Tremonti, rispondendo a Fini che gli rimproverava i tagli ai fondi per l’università, la ricerca e la cultura. Do ut des: questa è sempre stata la regola, del dare e dell’avere: Io ti dò a condizione che in cambio tu mi dia qualcosa. Il motto è degli antichi Romani: anche loro facevano così. Però nell’amicizia non dovrebbe accadere, o quanto meno in quel caso il ritorno deve essere di natura spirituale, non materiale. Cicerone diceva: Un amico è un secondo sé. Ne consegue che fra i due non ci sono ritorni, sul piano materiale: è come se abitassero nella stessa casa. Come lo siamo stati noi due per una decina d’anni, quando abitavamo porta a porta, sullo stesso pianerottolo, e io, che ero un ragazzo, venivo in casa tua, per ascoltare le tue lezioni, mentre tu venivi a casa mia per parlare con mio nonno”. Fra noi non c’è mai stato alcun ritorno, c’è stato sempre e soltanto il piacere di far felice l’altro, realizzandone i desideri, specialmente quelli culturali: una simbiosi naturale, spontanea, fatta di sentimenti paralleli, di modi di vedere la politica, la storia, la giustizia e così via. Noi siamo uniti da grandi valori, fra cui la libertà di pensiero, l’amore per il prossimo, il rispetto degli altri, delle loro opinioni, quando però non siano delle menzogne palesi e sfrontate”.

“Il do ut des, però, non ha solo una connotazione negativa, ma può indicare anche la necessità di un equilibrio nei rapporti fra due persone, nel senso che il rapporto non deve pendere da una parte ma deve essere appunto equilibrato”.

“Ognuno pensa al proprio particulare, diceva Guicciardini, e noi italiani siamo fermi lì. In politica i favori si sprecano, e i ritorni ormai non si contano più: Io ti dò il ministero del Tesoro, ma tu in cambio cosa mi dài? Tu hai dato molto ai tuoi alunni e ne hai ricevuto un ritorno che non ha l’eguale: sono molte le testimonianze che ti hanno dato e che ti danno tuttora. La tua Lettera a una scolaresca e Convittiade sono due capolavori, unici al mondo, tanto che l’attuale rettore del Convitto nazionale ti ha rifiutato di presentarli nell’Auditorium dell’Istituto in cui hai insegnato per un trentennio”.

“L’invidia, la gelosia e la presunzione offendono anche i più alti e i più nobili sentimenti. Io ho scritto un centinaio di sonetti, benevoli, dedicati a politici, attori, cantanti, conduttori e conduttrici della televisione, di cui ovviamente non faccio i nomi, e glieli ho inviati, via mail o su face book, credendo di fargli un piacere. Mi hanno risposto e ringraziato soltanto Montanelli, Cervi, Renzi e Salvini. Dagli altri nemmeno il ritorno di un grazie. Di due mi ha risposto lo staff, parlandomi di tutt’altra cosa che qui non posso dire. Ormai non c’è campo in cui non esista e non si esiga il ritorno, anche nello sport. Sul quale tu potresti dire qualcosa”.

“Beh, oggi lo sport non è più solo uno spettacolo, è anche una pratica di massa tra l’industria e la televisione, e detta regole di comportamento, specialmente nella politica, nella quale soprattutto, più che in altri campi, si verificano i ritorni nel senso di ricambi, compensi, inciuci o funzioni per un favore ricevuto. Non c’è più, o perlomeno è rarissimo, il così detto fair play di una volta, cioè un comportamento rispettoso delle regole che garantisce le stesse opportunità ai concorrenti anche se sono avversari o rivali. L’esempio più alto di un tale atteggiamento nello Sport rimane e rimarrà sempre quello di Bartali e Coppi, quando nel Tour de France del 1952 lungo il cammino si passarono una bottiglia d’acqua, e la bellezza di quel gesto sta nel fatto che non si è mai potuto sapere chi dei due campioni sia stato il primo a compierlo. Oh gran bontà dei cavalieri antichi! Eran rivali, eran di fedi avverse, ma, nel dire e nel far sempre pudichi, un tale esempio mai nessuno offerse”.

“Anche nel campo religioso si potrebbero fare riflessioni sul ritorno nel senso di ricatto, partendo, per esempio, dalle offerte o dai sacrifici a Dio da parte degli uomini, che erano richieste di qualche cosa, un do ut des, appunto. E non credo di dire una bestemmia affermando che questa sorta di ricatto, stando alla Bibbia, era reciproca, perché Dio a sua volta certe offerte non le gradiva. Pensa al caso di Caino e Abele, riportato da Mosè nella Genesi, anche se si tratta di una invenzione. Dio amava Abele perché gli offriva carni grasse di animali, profumate e grondanti di sangue, ma disdegnava Caino perché gli offriva miseri cesti di frutta. Ma Caino era un agricoltore, che altro poteva offrire a Dio di suo? Abele invece era un pastore di greggi. E le preghiere? In fondo sono anch’esse una sorta di do ut des, soprattutto il Padre Nostro, le cui richieste suonano come degli imperativi categorici: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, Rimetti a noi i nostri debiti, Non indurci in tentazione, Liberaci dal male. In più il secondo imperativo, Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, suona veramente come la richiesta di un ritorno nel senso di ricatto, come a dire (a Dio!): Fa ciò che facciamo noi verso i nostri debitori (di che cosa non si sa: la Chiesa per debitori intende peccatori, per cui il senso sarebbe questo: Visto che noi perdoniamo quelli che peccano contro di noi, tu perdona noi che pecchiamo contro di te). Ma qui mi fermo, perché la Bibbia, in particolare la Genesi – che la Chiesa definisce “Parola di Dio”, nel senso che Dio l’ha dettata personalmente ai profeti come un capo d’azienda detta una lettera alla sua segretaria – è tutta un ritorno, o se vogliamo essere generosi, un ritornello”.

Oggi da noi non solo la Politica,

l’Economia, l’Industria, l’Istruzione,

la Sanità e persino lo Sport,

ma pure il mondo dell’Editoria

 

si fonda sul ritorno, o l’estorsione.

Se si guarda su Internet, le case

editrici nel nostro bel paese

nascono come i funghi: non c’è giorno

 

in cui di botto non ne spunti una.

Del resto che ci vuole? Basta chiedere

all’autore, esordiente o già famoso,

una contribuzione. Sennonché

 

gli editori ti chiedono il ritorno

ancora prima dell’andata (in stampa),

che varia dai duemila ai quattromila

euro, se no il libro non si pubblica.

 

Con questa semplicissima trovata

è ovvio che chiunque può fondare

una casa editrice, anche all’interno

di casa sua senza nessuna spesa.

 

È passato oramai ben più di un anno

e una casa editrice, molto nota,

alla quale ho spedito un poemetto,

non m’ha mandato ancora una risposta.

 

Un’altra per un libro sulla lingua

m’ha risposto: “È davvero interessante,

originale e piacevole a leggersi,

ma piuttosto difficile da vendersi

 

perché, purtroppo, c’è troppa cultura”.

Ho pubblicato circa cento libri,

saggi, romanzi, testi teatrali,

poemetti, poesie e traduzioni

 

ristampate dagli editori stessi

e dalle grandi Case: Mondadori,

Bompiani, Fabbri, Rizzoli, Rusconi,

e tutti bene accolti dalla critica.

 

Gervaso sul mio libro La saggezza,

rispondendo ad Arturo Michelini

sul Messaggero (A tu per tu), gli disse:

“È bellissimo: leggilo in ginocchio”.

Un lettore su Gente così scrisse:

“Questa elegante e bella traduzione

rende il testo con grande leggerezza.

Ora capisco meglio, finalmente!”.

 

E dopo tutto questo repertorio,

ed altro che non posso qui citare,

dopo l’originale e ineguagliabile

contributo che ho dato alla cultura,

 

adesso che ho già un piede nella fossa

e più non m’è rimasta altra risorsa

che la mia mente lucida e feconda,

mi si chiedono soldi a non finire.

Così vado dall’una all’altra sponda

del grande fiume dell’editoria,

fintantoché non mi travolga un’onda

che mi sommerga e che mi spazzi via.

 

Ma non rinuncio a denunciare il marcio

che c’è nel bel paese: finché campo,

o finché posso, a testa alta io marcio,

anche se alla disfatta non c’è scampo.


di Mario Scaffidi Abbate e Renato Siniscalchi