Sasà Calabrese: polistrumentista-contadino

venerdì 26 giugno 2020


Se è vero che la fisiognomica ci racconta molto di una persona già al primo approccio, il viso marcato e il metro e novantuno ben saldato sul 48 di piedi racconta immediatamente la solidità dell’artista che andiamo a scoprire oggi. Calabrese di nome e di fatto, Sasà si definisce un autodidatta ma è uno che ha studiato tanto per realizzare quello che amava fare in maniera corretta ed onesta (come andrebbe affrontato qualsiasi lavoro che si decide di svolgere nella propria vita). Polistrumentista, cantante, autore di almeno una cinquantina di brani, ha progressivamente integrato la crescita teorica e strumentale stando a contatto con molteplici figure di rilievo del mondo jazzistico e partecipando a vari stage, seminari e Master Class. Ha suonato e collaborato con tanti artisti tra cui: Marco Tamburini, Joe Amoruso, Gigi Cifarelli, Cristal White, Max Ionata, Dan Kinzelman, Eric Daniel, Mike Applebaum , Luca Aquino, Joe Barbieri, Gegè Telesforo, Beverly Lewis, Geoff Westley e potrei continuare ad oltranza. Per quanto riguarda la musica pop, invece, ha collaborato con Federico Zampaglione, Linda Valori, Jenny B, Simona Bencini, Mario Venuti, Rossana Casale, Pierdavide Carone, Enrico Ruggeri, Fausto Mesolella, Amedeo Minghi, Roy Paci, solo per fare alcuni nomi. 

Suona stabilmente nella formazione della bravissima cantautrice Mariella Nava ed è ancora in corso la collaborazione con la mitica “Signorina Silvani” di Fantozzi: la meravigliosa Anna Mazzamauro con la quale ha un rapporto lavorativo consolidato, tanto che Calabrese ha scritto per lei le musiche originali per ben due commedie portate già in tournée: “Divina” e “Belvedere”.  Figlio di un “polilavoratore” (nel senso più ampio del termine appena coniato), Sasà racconta spesso degli alti e bassi lavorativi che ha dovuto affrontare il padre di origini campane, il quale assieme alla mamma cuoca (a cui dice deve le maniglie dell’amore per i suoi manicaretti), ha cresciuto quattro figli senza fargli mancare mai niente, sia in termini di sostentamento economico che culturale. Con la tesi che meglio un figlio felice che realizzato, i genitori di Sasà hanno supportato e sostenuto i propri figli verso il raggiungimento dei propri sogni.  Al padre deve l’amore per la musica, insieme al quale durante il lockdown si è esibito in salotti culturali sfoggiando voce ed esperienza. Sempre nei giorni della pandemia, Calabrese ha tenuto su Facebook un diario giornaliero in cui ha fatto conoscere meglio la sua musica, la sua sensibilità e anche la sua vita privata. Coinvolgendo anche i genitori: la mamma soprannominata “La Divanaia” e il papà soprannominato “Il Dinamico”, attirando curiosità e ammirazione da parte degli utenti del social. Appunti e aneddoti che hanno fatto compagnia in quei giorni interminabili, scanditi dalle conferenze stampa della Protezione Civile. Sasà è una persona passionale, se semina pomodori o sfoglia un libro non fa differenza, si dona senza riserve e questo particolare arriva diritto al mittente.

Teppista all’asilo, curioso alle elementari: a dieci anni suonava benissimo il pianoforte. Biondo e con la frangetta, la mamma lo immaginava già come il nuovo Richard Clayderman. Ma come la maggior parte dei bimbi biondi del Sud Italia, Sasà crescendo diventa moro quando è tempo di scegliere il percorso di studi. Avrebbe voluto frequentare il Dams a Bologna, ma per una questione di gestione e di mantenimento “ripiega” su Cosenza inscrivendosi ad Ingegneria Ambiente e Territorio. Di questo indirizzo universitario per sua stessa ammissione, ha salvato solo il metodo di studio e l’organizzazione rimanendo meticoloso, scrupoloso e profondo. Non lascia niente al caso. “La felicità è una rapina a viso scoperto” ammette. Nonostante le tante collaborazioni e incisioni, il lavoro discografico che più lo rappresenta è sicuramente “Conserve”: boccacci pieni di parole, di canzoni, di profumi, di sensazioni che ha voluto chiudere in questo lavoro che, nel 2018, lo ha portato anche ad essere finalista della Targa Tenco come migliore opera prima. Un disco che va ascoltato tutto di seguito perché ha un unico filo conduttore: un racconto orizzontale dove la memoria è protagonista assoluta. Un Cd bello dentro e fuori, partendo dai testi agli arrangiamenti fino alla grafica della copertina realizzata da Manolito Cortese, un altro figlio della Calabria. Sasà Calabrese viaggia tanto ed è spesso in tournée all’estero. Non ama molto i motori perciò ama viaggiare in treno “lato finestrino” (titolo della traccia n. 5 all’interno di “Conserve”), in modo tale da osservare tutte le persone che salgono immaginando le loro storie e magari scriverle.

Io però l’ho beccato in macchina, di sera tardi, in viaggio da Cosenza verso Castrovillari.

Ciao Sasà, come stai?

“Tengo botta”, come si dice in calabrese.

Sasà sta per?

Salvatore. Come vedi non sono riuscito a salvare neanche me stesso.

Sei polistrumentista, quando hai scoperto di essere interessato alla musica?

In realtà la musica l’ho sempre vissuta per via di mio padre (lui era un batterista/cantante in quelli che ai tempi si chiamavano “Complessi”). Anche se il giorno in cui ho deciso che alla voce “mestiere” sulla carta di identità dovevo scrivere “musicista” è avvenuto in tarda età, avendo quasi trent’anni.

Come nascono le tue canzoni?

Ho bisogno sempre di stare da solo, non scrivo mai con qualcuno a portata di orecchio. Solitamente mi esce fuori prima la musica, una serie di accordi, oppure una melodia. Scelgo l’argomento e provo a cesellare le parole. Se non ci riesco nell’immediato inizio a sistemarla foneticamente, mettendo parole a caso, addirittura in finto inglese. Poi mi dico che aggiusto tutto, ma capita che, anche se aggiusto tutto, spesso vorrei stracciare foglio e spartito ed iniziare da capo.

In tutto quello che fai, in quello che scrivi, si nota un approfondimento quasi maniacale. Da cosa deriva questa voglia di ricerca?

Ahimè, bisogna ammettere che l’approfondimento di un argomento deriva dalla mia formazione: sono un ingegnere, o almeno stavo già lavorando alla tesi, poi la musica ha deciso che forse quel mestiere mi avrebbe fatto compiere dei danni a cose o peggio ancora alle persone e quindi mi ha gentilmente sottratto da quella vita. Il metodo di studio, però, almeno quello, mi è rimasto.

Durante la quarantena hai tenuto un diario, precisamente il “Diario del lavapiatti in contumacia” molto seguito e apprezzato: ti sei ispirato alla guida-culinaria-biografia-romanzo di Romano Tamani o è solo un caso?

È solo un caso, perché non conoscevo questo volume. Adesso ovviamente vorrò leggerlo.

Hai scritto molte canzoni, i tuoi testi sono ricercati, le parole pesate: come è nato il tuo disco “Conserve”?

“Conserve” è memoria, e la memoria salva. Ho voluto mettere in forma canzone tutti i ricordi che avevo da ragazzo. Ho vissuto con mia nonna per scelta, per nessuna vicissitudine particolare, semplicemente perché ci amavamo. Sono tornato a casa dei miei genitori quando lei se ne andò. “Conserve” è una colata di ricordi, una spremuta di odori, profumi, sensazioni, che ancora non vanno via dalla mia testa.

All’interno di “Conserve” c’è la traccia n. 2 dal titolo “Qualcuno”.  Perché è un monologo e non una canzone?

Io credo che alcune parole siano come le zucchine: alcune diventano ortaggi, altre restano fiori. A me piacciono entrambe le forme.

Giri molto per il tuo lavoro ma torni sempre nella tua terra. Cosa ti lega alla Calabria?

Io credo che ognuno di noi, alla nascita, abbia in sé due cordoni ombelicali: uno reale, con la madre, che si stacca dopo un po’ di tempo, ed un altro immaginario. Quest’ultimo o si stacca subito, in adolescenza, oppure non si stacca più, come nel mio caso.

Che rapporto hai con la tua famiglia?

Ottimo, con i miei c’è stato sempre un ottimo dialogo. Per i miei fratelli, ne ho tre, sono il loro idolo. Ma loro non sanno che è l’esatto contrario: l’idolo è mio fratello che lavora in fabbrica otto ore al giorno, facendo straordinari, di giorno e di notte, pur di non far mancare nulla ai suoi figli.

C’è un artista che ti ha in qualche modo segnato in modo positivo?

Credo che Ivano Fossati sia quello che mi ha segnato più di tutti. Ma è anche quello che, ogni volta che tira fuori una sua canzone, mi abbassa l’autostima ai minimi storici.

Dopo molto tempo fermo causa Covid-19 sei tornato a fare uno spettacolo dal vivo. Proprio il 21 giugno, il giorno più lungo, citato nel testo dell’omonimo brano. Che emozioni hai provato e che valore dai al tempo?

“Il tempo è galantuomo” è una frase che mi porto addosso da sempre. Guardare negli occhi nuovamente a un pubblico vero è stata una bellissima sensazione, come se dentro di me fossero avvenute tante piccole rinascite, tanti piccoli bruchi divenuti farfalle.

Che rapporto hai con la natura?

Io vado sempre incontro alla natura e spesso mi accorgo che anche lei fa dei passi decisi verso di me. Andiamo d’accordo.

E con la tecnologia?

Per forza di cose, facendo questo lavoro, devo avere dimestichezza con tutto ciò che è tecnologico. Fosse per me farei tutto in analogico.

Progetti futuri?

Un nuovo disco, con la collaborazione di un amico gigante, una personalità musicale che mi ha fatto sempre “tremare il petto”: Geoff Westley, colui che ha fatto la storia della musica realizzando dischi che resteranno nell’olimpo, come “Una donna per amico” e “Una Giornata Uggiosa”, per dirne solo due. Riguardo al teatro, sto lavorando ad un ennesimo spettacolo con Anna Mazzamauro, attrice “gigante” con cui collaboro ormai da tantissimo tempo. Andremo in scena agli inizi del 2021.

Un posto dove ti piacerebbe abitare, a parte la Calabria

Lisbona. Leggendo Fernando Pessoa mi sono innamorato di quel posto.

Ti manca un figlio?

Sì, mi manca essere padre. Mi piacerebbe provare delle responsabilità più importanti di un sipario, di un disco o di una canzone.

https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_nb95bI2L2iXGYD7gEODTdQjFYr1p7_jr4

 

 

 

 

 

 

 


di Giò Di Sarno