Interviste immaginarie: Roberto Gervaso

giovedì 4 giugno 2020


“Sei stato il più grande, colto e ironico scrittore che io abbia mai conosciuto. E ho avuto la fortuna di essere tua figlia. Sono sicura che racconterai i tuoi splendidi aforismi anche lassù. Io ti porterò sempre con me” (Veronica).

Stavo pranzando e come al solito avevo acceso il televisore per ascoltare il telegiornale, quando improvvisamente ho sentito la ferale notizia. Una pugnalata, un colpo quale credo di non avere provato per la scomparsa degli altri miei “fratelli spirituali” che nella maggior parte ho conosciuto durante il trentennio della mia collaborazione alla Rai, recensendo i loro libri (nella rubrica Libri ricevuti) e intervistandone spesso gli autori. Roberto Gervaso l’ho incontrato per la prima volta alla presentazione di un libro di Alfredo Todisco, Il corpo, nel 1972 (la data l’ho ricavata dal libro stesso perché non la ricordavo): vi ero andato appunto per intervistare lui, e Gervaso, terminata la sua relazione, era rimasto accanto a noi due ad ascoltare e alla fine ci eravamo scambiati alcune parole. Lo incontrai successivamente in una libreria, allora molto nota, in cui veniva presentato un libro di Alberto Moravia (che già conoscevo e che incontravo spesso perché abitava sul Lungotevere delle Vittorie alle spalle del mio palazzo). Provai subito, istintivamente, nei confronti di Gervaso un sentimento di simpatia, per la sua affabilità, la sua serenità (apparente, come avrei appreso più tardi leggendo i suoi libri). Ora è entrato nel Pantheon dei miei “fratelli spirituali” e poiché sugli scaffali della mia biblioteca mancava la sua foto ho preso uno dei suoi libri, A mia madre, che lo ritrae sulla copertina, e l’ho scannerizzata. Quindi, come al solito, sono andato a sedermi sulla poltrona reclinabile del mio studio, col libro fra le mani per sentirlo in qualche modo vicino, ho chiuso gli occhi e così l’ho intervistato.

Caro Roberto, ho avuto molte cose in comune con te, più di quante non ne abbia avute con gli altri miei fratelli spirituali. Innanzitutto anch’io ho sofferto di depressione e per tanti anni mi sono portato dietro una sensazione di straniamento, d’irrealtà. Ne sono uscito con la meditazione yoga”.

“A me la depressione più che il timore dava il senso della morte, che mi agitava l’animo, paralizzando ogni mia attività, popolando di ombre il mio presente e di spettri il mio futuro. E tuttavia i libri migliori li ho scritti proprio in quella atmosfera”.

“È accaduto anche a me, e sta accadendomi ancora di più da cinque o sei anni a questa parte, e a 94 anni posso dire di avere già un piede nella fossa”.

“Io i miei libri migliori li ho scritti con l’animo in guerra, le mie pagine più belle, o quelle che io ritengo tali, le devo alla malinconia e alla disperazione, non alla spensieratezza e alla felicità. E tuttavia è proprio la lotta interiore che ha il potere di scuotere il nostro intimo Io, facendo emergere il meglio di noi, portando alla luce virtù nascoste, sentimenti sconosciuti, energie insospettate”.

“Un’altra cosa che mi legava a te, confermatami dalla lettura di certi tuoi libri, era il tuo atteggiamento nei confronti della Chiesa e del Cristianesimo”.

“In realtà, pur essendo cattolico, io non lo ero, ma ciò non significa che io fossi anticattolico, significa che non mi sono mai riconosciuto non solo nella Chiesa cattolica ma in nessun’altra, anche se le ho sempre rispettate tutte e non ho mai contestato a nessuna il diritto di predicare il proprio Verbo. Anche in fatto di religione io non ho mai accettato imposizioni da nessuno, le verità le ho sempre cercate da me”.

“Sai cosa rispondevo quand’ero ragazzo ai preti e agli insegnati di Religione che volevano impormi di credere per fede anche a ciò che sul piano della logica non mi convinceva? Col Padreterno me la vedo io. La mia visione di Dio e della Creazione l’ho riassunta in soli quattro versi: Gli uomini sono immagini di Dio, che dialogando con se stesso va. Pertanto se lo vedo a modo mio è sempre Lui che il Verbo suo mi dà”.

“Me ne sono andato in un periodo che forse è il più brutto della nostra storia. Ho sperato sino all’ultimo in un cambiamento. Io sono sempre stato un conservatore, ma non nemico del progresso. Ero contro certi progressisti, i quali tuttora altro non sono che astuti trafficanti mossi più dalla propria ambizione che dall’ideologia che tartufescamente sbandierano, solleciti più del proprio particulare che del bene pubblico”.

“Gl’Italiani in genere non guardano al futuro, e dal passato, che per loro è rappresentato solo dal Ventennio, estrapolano i fatti che gli fanno comodo per poterne dire peste e corna. Mi dispiace che tu non possa leggere il mio ultimo libro sugli Italiani che sta per uscire in questi giorni: Nave senza nocchiere in gran tempesta, un poemetto in versi sulla nostra storia, dalle origini sino ad oggi”.

“Dal passato bisogna recuperare, e conservare, ciò che di buono in esso sopravvive: leggi, morale, costumi”.

“In un tuo libro che conservo come un cimelio fra quelli più importanti con sopra una targhetta di cartone con la scritta libri degli amici visibile in uno scaffale della mia libreria, mi ha colpito un dialogo fra te e Indro Montanelli, il quale a un certo punto ti disse: Perché il voto di un barbone deve valere quanto il mio? I voti andrebbero pesati, non contati. Se non tutti i cittadini possono guidare l’automobile, perché tutti possono eleggere chi guiderà il Paese? E tu gli rispondesti: Dunque non siamo uguali. Al che lui: Perché, gli animali lo sono? E tu: Cos’è allora l’uguaglianza? La negazione del principio d’ordine, rispose lui. Distrugge tutte le differenze di valori, gerarchie, meriti. E tu: E cos’è la libertà? Ordine, concluse Montanelli. Ecco, è questo che soprattutto manca nel nostro Belpaese”.

“Quale maleficio s’insinua nella depressione? Chi decide che dobbiamo passare sotto le sue forche caudine, inermi e inerti, subendo e soffrendo? Perché la natura che ho sempre amato e onorato mi diventa ostile? Perché i libri, che sono la mia vita, perdono ogni interesse? Perché tengo alla larga gli amici e, quando mi sono vicini, è come se fossero assenti? Perché la mattina non mi alzerei mai? Perché invidio l’ultimo clochard che incontro per strada, alla stazione, sui gradini di una chiesa? Il cane nero, il male oscuro, è un’ossessione senza fine, che non ti dà tregua, non si placa mai. Una lancia che ti si conficca nel costato, un coltello che ti scalca il cuore. Chi non conosce questo morso feroce ti esorta a farti coraggio. Ma come ti può comprendere chi non è mai entrato in questo antro infernale? Esasperato e disperato, t’illudi di trovare uno sfogo nel pianto. Versi, singhiozzando, tutte le lacrime che hai nel cuore, e vorresti morire. T’imbottisci di psicofarmaci, che ci vogliono, ma ben dosati: mai abusarne. L’effetto si fa sospirare e una mattina ti svegli con un’ansia che sfiora l’angoscia, ma che non è angoscia. Piano piano, impercettibilmente, le ante della tua finestra si dischiudono, ma non puoi ancora affacciarti. Solo uno spiraglio, che vagamente fa filtrare un pallido raggio di luce” (Roberto Gervaso, Ho ucciso il cane nero).


di Mario Scaffidi Abbate